Alessandra Biondi Bartolini è, di formazione, agronoma: lavorava nel settore Ricerca e Sviluppo di diverse aziende viticole. Poi ha scommesso sulla libera professione, ha puntato sul giornalismo scientifico, collaborando con alcune riviste tecniche rivolte a produttori e professionisti.
Pochi giorni fa è diventata direttrice scientifica di Millevigne rivista specializzata del settore vitivinicolo, edita dai Vignaioli Piemontesi e che si rivolge a un pubblico di produttori e professionisti: un periodico molto attento agli aspetti pratici della viticoltura e all’innovazione applicata alla pratica enologica.

Chi scrive di vino per il pubblico difficilmente rischia: l’immagine del vino è bucolica e spesso chi la comunica, segue percorsi già battuti per non risultare sgradito ai lettori. Eppure parlare di scienza e innovazione si può”, spiega Biondi Bartolini al Riformista, “e quando qualcuno ci riesce, di solito è molto apprezzato”.

La verità è che fare innovazione nel nostro Paese, anche in ambito agricolo, appare una scelta difficile: innanzi tutto perché le realtà agricole italiane hanno in media 12 ettari e sono, dunque, mediamente più piccole delle altre aziende europee.

“Non sono molte le cantine che, in Italia, investono in R&S: fanno eccezione grosse realtà che hanno già al loro interno un gruppo che si occupa di trasferimento tecnologico. All’estero”, spiega la giornalista, “esistono strutture che lavorano da un lato con le Università e dall’altro con le aziende e anche in Italia stanno nascendo recentemente strutture Spin-off che fanno questo tipo di trasferimento. L’Australia poi è l’unico modello in cui la ricerca entra nel costo di produzione di ogni singola bottiglia!”.

Ma se il cliché culturale concepisce lo stesso mondo agricolo, come ispirato a un modello tradizionale e infarcito da fatalismo e lentezza, esiste una possibilità, concreta, di fare dell’innovazione la leva di domani. Quella delle nuove generazioni.

Da una parte ci sono barriere di tipo tecnologico, dall’altra c’è una barriera, tra grande e piccola realtà, di tipo culturale: ma i più giovani – che sono nativi digitali e che si sono trovati a gestire realtà ereditate – riescono a capire la portata dell’innovazione tecnologica, sono in grado di ‘scendere dai trattori’ dei nonni (sì, perché spesso c’è un salto generazionale), risultano più collaborativi e maneggiano strumenti per loro normali”, prosegue Alessandra Biondi Bartolini.

In questo senso, esistono buone prospettive, anche in pezzi di territorio molto tradizionali e refrattari al cambiamento.

“Il vino è un prodotto di consumo edonistico, che va di pari passo con l’andamento del mercato, esattamente come l’alta moda: non a caso le maison francesi – per esempio, Lvmh – investono nel vino ma a differenza dei marchi dell’haute couture, dove si investe nell’innovazione di prodotto, l’innovazione nel vino è quasi solo di processo”.
Con il cambiamento climatico che ha modificato le condizioni ambientali di alcune zone d’elezione (ad esempio, la Toscana, per il Sangiovese), a breve, potrebbe non essere più così. In California o in un paese privo dei vincoli legati alla tradizione, ai territori e alle denominazioni, prenderebbero il Sangiovese per portarlo in montagna e al suo posto ci metterebbero il Primitivo. Per noi, questo cambiamento di varietà sarebbe inaccettabile: non riusciamo a pensare un’agricoltura diversa!”, chiosa Biondi Bartolini.

Insomma, non si può produrre un “nuovo Brunello” – che deve avere quelle caratteristiche ed essere legato a quel territorio – ma si può “innovare il processo” per ottenere un prodotto più sostenibile (non solo più buono).

Una sfida enorme, dedicata tutta a ripensare le stesse tecniche di coltivazione dei vigneti”. Per esempio: secondo i disciplinari di produzione, irrigare la vite – un tempo – era considerata una forzatura, con il risultato di aumentare la quantità a danno della qualità. “Ma se la vite va in sofferenza perché non piove per settimane come avviene sempre più spesso, non solo produce meno ma fa anche meno qualità”.
E allora bisognerebbe avere il coraggio di cambiare quei disciplinari. E irrigare (per restare nell’esempio). Ma questo vale per tutto.

Si chiama viticoltura di precisione (o smart factory) e, insieme all’internet of farming, è un pezzo importante dell’Agricoltura 4.0: l’utilizzo integrato di diverse tecnologie che consentono di ottenere la migliore resa, qualità e anche sostenibilità delle coltivazioni. “Nella pratica, per esempio, è possibile stabilire con tempestività le necessità di irrigazione e concimazione di una coltivazione, prevenire le patologie, organizzare la raccolta, risparmiando tempo e risorse”, scrive proprio su Millevigne Gabriella Tirino, a proposito di innovazione enologica.

Un mercato, per l’Italia, da circa 400 milioni di euro, ha calcolato l’Osservatorio Smart Agrifood del Politecnico di Milano e dell’Università di Brescia.
La legge di Bilancio per il 2020 ha introdotto novità a sostegno dell’Agricoltura 4.0: un Fondo di 39,5 mln di euro per la competitività delle filiere ed è previsto un contributo a fondo perduto fino al 35% della spesa e mutui agevolati fino al 60% per finanziare lo sviluppo di processi produttivi innovativi e dell’agricoltura di precisione o tracciabilità dei prodotti.
Le applicazioni, in vigna come in cantina, sono numerose ed esistono già.

Per esempio: tramite dei sensori messi tra i filari, è possibile misurare il microclima della vite e ricevere indicazioni precise per ogni singola zona del vigneto “sulle condizioni favorevoli allo sviluppo dei patogeni”. Oppure, “attraverso l’uso di droni, vengono rilevati dati, successivamente elaborati mediante algoritmi di image analysis, image recognition e machine learning”, spiega Tirino.

Tutto questo rappresenta un vantaggio competitivo, per la riduzione dei costi e l’ottimizzazione delle risorse: permette, monitorando i dati raccolti, di scegliere e organizzare i trattamenti da somministrare e di avere disponibilità di informazioni precise e attendibili, affrontando i diversi possibili scenari con minore incertezza.

Anche in cantina la digitalizzazione permette di rivoluzionare il lavoro di produttori ed enologi: attraverso etichette elettroniche applicate ai vasi vinari, si possono visualizzare e aggiornare tutte le informazioni relative al contenuto.

Ancora. Accanto a tecnologie che riguardano l’imbottigliamento e lo stoccaggio, esistono soluzioni IoT – Internet of Things – che si occupano delle bottiglie in fase di spedizione: “L’applicazione dell’IoT consente di creare la rete che permette di tracciare le bottiglie dopo che lasciano la cantina”, spiega Biondi Bartolini. E prosegue: “A partire dal momento in cui il prodotto lascia la cantina, il vino entra nella zona grigia del trasporto e della catena di distribuzione, nella quale sfugge al controllo sia del produttore che del suo acquirente. Durante questa fase il prodotto va talvolta incontro a modifiche o alterazioni e salvo i casi nei quali il packaging risulti danneggiato, sarà poi direttamente il consumatore a rilevare il problema. In mancanza di dati sia le cause sia le eventuali responsabilità saranno difficili da ricostruire. Solo recentemente si sta finalmente cominciando a fare luce su quella che può essere definita l’enologia del post-imbottigliamento”.

Ecco che un “sensore di temperatura messo sul tappo” può permettere di leggere informazioni che altrimenti sarebbero indisponibili, lette tramite un device molto semplice. È l’introduzione dell’Internet delle cose, “oggetti intelligenti che raccolgono dati e facilitano la comprensione dei fenomeni. La vita della bottiglia (un tempo, corpo chiuso) dopo la cantina, apre tutto un mondo: e si dava sempre la colpa al tappo!”. conclude Alessandra Biondi Bartolini.

Una Startup emiliana, Wenda, ad esempio ha sviluppato un nuovo sistema che permette di associare “temperatura, vibrazioni e umidità raccolti durante il viaggio ad un’unica piattaforma, dove le informazioni elaborate sono condivise dall’azienda che ha spedito il vino e il retailer che lo ha ricevuto. La versione più avanzata è dotata di un modem collegato alla rete e permette in ogni momento di geolocalizzare il trasporto e inviare alla piattaforma i dati in tempo reale”.

Si chiama innovazione e parla 4.0 dicono gli esperti. Per noi che non lo siamo, si chiama futuro.

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Ho scritto “Opus Gay", un saggio inchiesta su omofobia e morale sessuale cattolica, ho fondato GnamGlam, progetto sull'agroalimentare. Sono tutrice volontaria di minori stranieri non accompagnati e mi interesso da sempre di diritti, immigrazione, ambiente e territorio. Lavoro in Fondazione Luigi Einaudi