Sarebbe sufficiente mettere in fila i numeri: 4 anni di dibattimento, 6 anni di indagini, 30 minuti di camera di consiglio. Poi l’assoluzione per Silvio Berlusconi e il cantautore Mariano Apicella, dopo la aveva richiesta addirittura il pubblico ministero Roberto Felici. La corruzione non ci fu, e il chitarrista non andò a mentire a pagamento quando nel processo milanese denominato “Ruby” aveva definito come “normali” le serate di Arcore in cui aveva intrattenuto Berlusconi e gli ospiti con le sue canzoni. Il chitarrista è assolto a Roma dal reato di corruzione in atti giudiziari (prescritta la falsa testimonianza) dopo che a Siena la stessa sorte aveva avuto il suo collega pianista Danilo Mariani, assolto perché “il fatto non sussiste”.

Se qualcuno si sta domandando come mai il rappresentante dell’accusa di Roma abbia in certo qual modo derogato al suo compito ordinario che è quello di accusare, appunto, e quindi di chiedere la condanna, e abbia invece sollecitato l’assoluzione dei due imputati, risponderemo con una spiegazione geografico-politica. Le carte dell’accusa arrivavano da Milano, da quella procura che, dopo aver costruito la bufala del “processo Ruby” da cui Berlusconi è uscito assolto fino alla cassazione, non si è mai rassegnata a rinunciare alla cattura del pesce grosso. Quando dall’aria meneghina si passa a quella di luoghi diversi, di palazzi di giustizia “normali”, da Siena a Roma, ecco che tutto cambia, le cene diventano solo occasioni di svago e i colpevoli vengono dichiarati innocenti. Le carte milanesi finiscono nel cestino della carta straccia, dove avrebbero dovuto sempre stare, il pm chiede l’assoluzione e il tribunale decide in mezz’ora. Si capisce bene che in questi processi in salsa milanese non si tratta più solo di distinguere la verità dalla menzogna, di capire se l’imputato stia mentendo perché si è fatto corrompere dal satrapo delle orge, ma piuttosto di cercare la conferma di tesi precostituite. E se non la si trova, perché l’organizzatore delle serate maledette è stato assolto fino al terzo grado di giudizio, allora vorrà dire che per arrivare a quella sua “purificazione” giudiziaria deve per forza aver pagato. Manca poco che Berlusconi venga accusato anche di aver corrotto i giudici, quelli dell’appello e quelli della cassazione che lo hanno dichiarato innocente.

Perché, nella mentalità di certi pubblici ministeri, come ha ben spiegato urbi et orbi l’ex campione di Mani Pulite Piercamillo Davigo, non esistono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca. E figuriamoci se non l’ha fatta franca il più colpevole di tutti, che oltre a tutto dispone anche di consistenti possibilità economiche. E a che cosa servono i soldi, se non per comprarsi tutti, compresi i testimoni e magari gli stessi giudici? Il paradosso è che il presidente di Forza Italia avrebbe sborsato, e decine di suoi ospiti si sarebbero fatti corrompere, per truccare un processo in cui è stato dichiarato innocente. Ogni tanto salta fuori qualcuno che si dichiara pronto a rivelare “la verità” su quel che succedeva in quelle serate. Ma di quale verità che costituisca reato si tratti, ancora nessuno lo ha spiegato. E ancora, nel processo denominato “Ruby ter” in cui a Milano i pubblici ministeri hanno chiesto la condanna a cinque anni di carcere per Silvio Berlusconi, non viene esplicitato quale motivo avrebbe avuto l’ex premier di truccare le carte.

I tribunali di Siena e Roma hanno appurato che i versamenti in denaro sui conti correnti dei due musicisti erano delle vere retribuzioni, attinenti a periodi precedenti e non solo successivi all’inizio del “processo Ruby”. Versamenti regolari e costanti. Così come regolari e elargiti alla luce del sole erano quelle specie di risarcimenti che il leader di Forza Italia aveva ritenuto di dovere a quelle ragazze del mondo dello spettacolo o della comunicazione che avevano visto la loro carriera danneggiata quando non del tutto stroncata in seguito alla pubblicità negativa di cui erano state vittime in seguito alle indagini e al “processo Ruby”. La politica della tesi precostituita e la caparbietà che qualcuno interpreta come rivalsa per l’assoluzione di Berlusconi nel processo principale, ha portato la Procura di Milano anche a un clamoroso scivolone. Clamoroso e grave. Alcune di queste testimoni già ai tempi del primo processo erano in realtà indagate, e come tali avrebbero dovuto essere interrogate, e non nella veste di testimoni. Non è questione di lana caprina, e non è neppure solo un fatto formale.

In una società che rispetti i diritti di tutti, e a norma delle leggi italiane, la persona indagata deve avere il massimo della tutela, e deve essere sentita, sia nella fase delle indagini preliminari che nel dibattimento, con la presenza del difensore. L’indagato e l’imputato hanno diritto al silenzio, e anche alla menzogna. Abbiamo visto nel passato, in particolare nei processi per terrorismo, ma anche in seguito, i procuratori usare il “trucchetto” di chiamare a testimoniare, quindi senza difensore e con l’obbligo a dire la verità, persone che in realtà erano già sottoposte a indagini. E’ stato il tribunale presieduto da Marco Tremolada, lo stesso del processo Eni, a svelare quanto accaduto con un’ordinanza che tagliava di netto la possibilità di alcune testimonianze, e azzerava quelle già rese nel primo processo. Se qualcuno pensa che il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, che rappresenta l’accusa in aula, si sia arresa, si sbaglia. Il processo si sta svolgendo come se niente fosse, basato sul nulla come tutti gli altri finiti con le assoluzioni. E a gennaio vedremo se il partito delle tesi precostituite sarà atterrato dall’ennesimo flop. Perché, come ha detto la pg Celestina Gravina nell’appello contro i vertici Eni voluto dal pm Fabio De Pasquale, “questo processo non avrebbe dovuto neppure cominciare”. E se anche il “Ruby ter” finirà in niente, come dovrebbe, nulla potrà risarcire Silvio Berlusconi e la giustizia italiana.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.