Loro sono finiti, il populismo no
Boris Johnson e Giuseppe Conte, come hanno potuto due tipi così diventare premier?
Nella stessa giornata precipita Boris Johnson, appena tre anni dopo la folgorante vittoria elettorale, e affonda nelle sabbie mobili nelle quali lui stesso si è infilato Giuseppe Conte, meno di due anni dopo i giorni del trionfo, della popolarità più da star dello spettacolo che da leader politico, dell’infatuazione cieca che portò innumerevoli esponenti della sinistra a definirlo “insostituibile”. Difficile immaginare figure più diverse: l’oscuro avvocato di Volturara Appula (Foggia) catatapultato a palazzo Chigi come un signor Nessuno e il rampollo dell’aristocrazia Alexander Boris de Pfeffel Johnson con alle spalle una brillante carriera di giornalista e due mandati come sindaco di Londra. Invece qualcosa in comune i due ce l’hanno. Sono entrambi figure improbabili, l’avvocato premier per caso, capace di cambiare ruolo politico e immagine come ci si cambia d’abito, buono per tutte le stagioni, e l’istrione rumoroso, sempre sopra le righe, di proverbiale inaffidabilità, pittoresco ma nulla di più. Ritrovarli in ruoli chiave della politica europea desta lo stesso stupore, suscita identiche domande su cosa sia la politica nel XXI secolo ormai avanzato.
BoJo è il giornalista licenziato dal Times per l’uso di citazioni false, l’opinionista che sulla Brexit aveva preparato per il Telegraph due articoli, un a favore e l’altro contro la Brexit, tanto per essere certo di non sbagliare. Tre mogli, una quantità di figli tra legittimi e non, una fama leggendaria nelle redazioni londinesi per l’abitudine di mandare pezzi in clamoroso ritardo e una nomea altrettanto discutibile nei salotti della politica per la capacità di inanellare gaffes una via l’altra e per il disordine caotico. Tutto un altro stile dall’avvocato Conte, sempre in perfetto ordine, abilissimo nell’usare sempre il tono giusto a seconda degli interlocutori, attento al dettaglio come solo un leguleio può essere. Ma anche qui qualcosa di simile, anzi identico c’è: una cura per l’apparenza tanto meticolosa quanto eloquente. BoJo è noto per scompigliarsi apposta il ciuffo, curando nel dettaglio l’immagine noncurante. L’eleganza un po’ provinciale di Conte è celebre, con quella pochette sempre ben piegata che per un po’ ha fatto epoca in Italia. Sono arrivati alla carriera politica per sentieri opposti, ma scommettendo sulle stesse carte: l’immagine che ormai in politica è tutto, l’apprezzamento dell’elettorato femminile, che entrambi possono vantare a ottimo diritto.
BoJo deve l’inatteso sbarco a Downing Street alla Brexit e al fallimento di Theresa May. Si presentò agli elettori con promessa solo, quella di portare la Brexit a compimento e fu plebiscitato. Conte fu spinto dalla stessa onda che aveva riempito il Parlamento di deputati e senatori per caso. Anche se lui non faceva parte del plotone. L’Italia si accorse della sua esistenza solo il 21 maggio 2018, uscito fuori a sorpresa dal cilindro di Luigi Di Maio, “capo politico” del M5S, che lo aveva proposto a Sergio Mattarella come futuro capo di un governo M5S-Lega. Non era il primo presidente del consiglio non parlamentare. Il predecessore si chiamava Carlo Azeglio Ciampi, governatore di Bankitalia, insomma non certo uno sconosciuto.
Conte invece sconosciuto lo era davvero. Ed eccolo di colpo capo del governo, con aria modesta e eloquio sin troppo umile, consapevole all’apparenza di essere quasi un prestanome sotto tutela stretta dei veri potenti, i vicepremier e ministri di gran peso Gigi Di Maio e Matteo Salvini, futuri arcinemici. Faceva persino un po’ di tenerezza. Quando le telecamere lo sorpresero a colloquio con Frau Merkel, a notte inoltrata, in occasione di un vertice internazionale, l’inesistente considerazione della potentissima faceva quasi stringere il cuore.
BoJo danzava al suono della musica opposta. Arrogante, rumoroso, clownesco, eccentrico, convinto di essere destinato alle vette più alte e di non dover dunque concedere nulla alle forme e alla diplomazia. Ma del resto anche per Conte umiltà e modestia erano solo di facciata. La competizione tra i due soci della maggioranza gialloverde gli offrì l’occasione di emergere e smarcarsi. Salvini correva come un treno ad altissima velocità, lievitava nei sondaggi. I 5S masticavano amaro, subivano l’iniziativa del tribuno che rubava scena e consensi. Conte si autonominò l’anti-Salvini. Agli occhi dei già tramortiti 5S chiunque sembrasse in grado di frenare il leghista sembrava il redentore. Si innamorarono dell’ex anonimo prestanome.
Ma non furono solo i grillini smarriti a guardare con interesse all’uomo che si contrapponeva all’impeto leghista. Anche i poteri italiani ed europei che lo avevano sino a quel momento considerato meno di zero si chiesero se non fosse proprio lui lo sconosciuto inviato dalla Provvidenza per domare e normalizzare i pargoli del “Vaffa”, quella variabile impazzita che stava facendo saltare ogni equilibrio. Proprio l’opposto dello sguardo sempre più preoccupato con cui guardavano al rumoroso Boris e alla sua fermezza nel difendere le linee guida della Brexit. Per Bruxelles il populista pericoloso era lui, non il premier insediato in Italia dal partito del “Vaffa”.
Conte capì l’antifona, rispose alle aspettative. Con una manovra astuta spostò i voti determinanti dei 5S ex anti Ue a favore della nomina di Ursula von der Leyen alla presidenza della commissione europea. Tenne all’oscuro del progetto gli alleati leghisti che si ritrovarono così soli a difendere i bastioni del sovranismo antieuropeo mentre i 5S slittavano verso l’immagine di forza europeista, responsabile e ragionevole, Accettabile.
Lo scontro con Salvini era a quel punto inevitabile. Il corpo a corpo parlamentare con il truce leghista gli valse un vero e proprio miracolo: la riconferma alla guida del governo successivo, con maggioranza opposta, fondato sull’asse Pd-M5S. Spuntò un Conte “di sinistra“, l’uomo giusto per realizzare l’impensabile: un’alleanza non più coatta ed effimera ma stabile e progettuale tra il Movimento e il nemico di sempre, il Pd.
Miracolato in realtà Conte lo fu due volte. Pochi mesi dopo averlo confermato sul trono di palazzo Chigi, Matteo Renzi si preparava già a disarcionarlo. Poi arrivò il Covid e con il coronavirus arrivò anche l’apoteosi di “Giuseppi“, come da definizione trumpiana. Con la regia di un Rocco Casalino scatenato, Conte fu superlativo sul piano dell’immagine ma decoroso, date le immense difficoltà del momento, anche nella sostanza. Non che siano mancati errori anche gravi nella gestione della pandemia e la missione Recovery Fund non sarebbe andata lontana senza la pressione delle aziende tedesche, che avevano bisogno della componentistica italiana, e di conseguenza di Angela Merkel. Ma nel complesso Conte in quell’anno difficilissimo ha tenuto botta davvero e ha offerto al Paese l’immagine di cui aveva bisogno: quella di un governo rassicurante, decisionista e davvero partecipe del dramma che viveva il Paese.
Non si può dire altrettanto di BoJo. Il Covid ha segnato per lui l’inizio della fine politica. L’inquilino di Downing Street lo ha preso sotto gamba, è apparso oscillante, poco adeguato, soprattutto distante dal suo popolo. Del tutto incapace di costruire quel legame tra potere e popolo come invece è riuscito per un po’ a fare da noi l’omologo italiano.
Le quotazioni di Giuseppe Conte, già perfetto sconosciuto, s’impennarono. Difficile ricordare un’ascesa altrettanto folgorante nei consensi popolari. Non bastò. Gli giocavano contro l’abilità manovriera di Renzi, la diffidenza degli Usa, che lo consideravano troppo corrivo con la Russia e con la Cina, l’ostilità di Di Maio, che lo costrinse a dimissioni tutt’latro che dovute quando una mozione di sfiducia stava per abbattere il ministro della Giustizia Fofò Bonafede. Ma gli giocavano contro anche, forse soprattutto i suoi limiti. Tra le tante immagini di Giuseppe Conte nessuna è più lontana dal vero di quella del decisionista. L’uomo, al contrario, è tra i più indecisi e privi di audacia. Accerchiato dalla manovra di Renzi non ebbe né il coraggio di rompere per primo né la determinazione nell’imporre elezioni, come avrebbe potuto fare, dopo la defenestrazione. Non se la sentì neppure di fondare un proprio partito per capitalizzare l’enorme consenso di cui godeva in quel momento.
Tutte le differenze tra lui e l’aristocratico inglese si ricompongono qui. Perché anche BoJo paga i soli limiti di carattere: la superficialità, l’assenza di metodo, l’incapacità di guidare un Paese e un partito, la leggerezza che lo rende un grande personaggio ma anche un pessimo leader.
Del resto proprio i difetti di carattere, non più controbilanciati dalla rendita di posizione garantita da palazzo Chigi, hanno reso per Conte un calvario l’esperienza di leader del M5S: un titolo al quale non ha mai corrisposto la sostanza. Il quadro del Conte capo di partito. Costretto dagli eventi prova ora a cambiare ruolo e immagine: dopo essere stato il normalizzatore dei 5S tenta di trasformarsi nel leader che li riporta alle origini, alla grinta populista, all’integrità fortemente venata di integralismo. Non è la sua parte in commedia. E’ la più distante dalla sua personalità, quella più ostica persino per un leader “buono per tutte le stagioni“. Per questo non è escluso che sia l’ultima incarnazione di Giuseppe Conte sia anche quella finale.
Ma la domanda iniziale resta: come è possibile che simili figure siano arrivate in tempi rapidissimi al vertice delle istituzioni di Paesi importanti come il Regno Unito e l’Italia? Difficile evitare il dubbio che sia proprio la politica in sé ad aver perso buona parte del proprio ruolo, in una dinamica in cui i poteri reali la vivono sempre più come un impaccio e una formalità necessaria ma fastidiosa, alla quale rendere tutt’al più qualche omaggio formale. In un quadro complessivo dove la politica conta pochissimo nessuna figura è troppo improbabile, purché sappia dispiegare un’immagine almeno per qualche tempo seducente.
© Riproduzione riservata






