«Non abbiamo ancora deciso, non assicuro il sostegno del M5s al governo». Giuseppe Conte dev’essere finito nel copione di una serie tv scritta da Casalino. La sua pazza giornata rimane incompiuta ma è ricchissima di colpi di scena, di suspence, di sentimenti contrastanti. Ha riunito due volte il Consiglio nazionale, prima ieri mattina e poi in serata. Ha spiegato in mattinata ai suoi che la fiducia a Draghi va votata e provato a tracciare, attraverso un documento di nove punti consegnato a Draghi, una onorevole via di uscita dal pantano in cui s’era cacciato. Una summa dove c’è tutto e niente: reddito di cittadinanza, salario minimo, cuneo fiscale, contrasto al caro bollette, superbonus 110%. Rivendicazioni per la campagna elettorale, più che posizioni strategiche. Scontro rimandato, nei fatti, perché i suoi sanno che prima del 24 settembre si può abbaiare ma non si deve mordere: il Pd è stato chiaro, cadrebbe tutto. E il Parlamento deve rimanere saldo, sono in gioco le pensioni parlamentari. Ed è in gioco il contributo, già decurtato di un terzo dopo l’uscita di Di Maio, che permette al Movimento di pagare gli stipendi e le spese per la comunicazione.

Se le Camere saltano, il Movimento non sta in piedi. Così oggi, come in una sceneggiatura ibseniana, va in scena la farsa del “duro confronto con Draghi”. Una narrazione scontata. Ma su Palazzo Chigi si sparano solo colpi a salve. Così l’incontro viene considerato “collaborativo e positivo” da palazzo Chigi, con un comunicato smentito in serata da Conte: «Nessuna delega in bianco, chiediamo risposte entro luglio». E di nuovo minacce, anche tecniche: la convocazione del cerchio magico contiano e poi la plenaria dei gruppi fino a notte è una di quelle trovate sceniche della solita regìa da Grande Fratello. La domanda ora è una: nel Movimento, la voterebbero la fiducia a Conte? Perché se lui tentenna, ormai il dentifricio è uscito dal tubetto. Il discorso dell’uscita dalla maggioranza Rocco Casalino l’aveva scritto, e perfino letto ad un piccolo pubblico. E a molti era piaciuto. “Non ci hanno ascoltato”, il refrain di quell’addio già vergato su carta, è diventato nella versione edita ieri: “Non ci ascoltano, ci dovranno sentire”.

Toni tornati più severi nel corso della serata, quando Conte ha capito che i suoi premevano per tenere alta la tensione. La mediazione iniziale dell’ex premier sui suoi è messa in seria discussione dallo scetticismo dei duri e puri che non vogliono deporre le armi. Dall’arrivo di Grillo a Roma, giovedì scorso, è trascorsa una settimana. Sette giorni utili ai duri e puri per fomentarsi a vicenda e accalorarsi in quella che molti definiscono come una strada senza ritorno. Gianluca Castaldi, senatore M5s e sottosegretario ai rapporti con il Parlamento, varca il Rubicone e dice a chiare lettere che bisogna passare all’opposizione. Dello stesso avviso Paola Taverna (“finora abbiamo preso schiaffoni, possiamo lavorare benissimo dall’opposizione”) e Alberto Airola, che nelle riunioni agitatissime di questi giorni affida la sua indicazione a un messaggio in codice: “Le fragole sono marce”. Sarebbero una trentina i parlamentari che hanno preso posizione per uscire dalla maggioranza, portando l’ex premier a smentire di aver già preso una decisione, per affrontare una nottata di consultazioni al telefono.. La senatrice pentastellata Maria Elena Spadoni segue invece il ministro D’Incà nell’area lealista: «Il M5s ha sempre mantenuto una linea di assoluta responsabilità nazionale. Ora il senso di responsabilità verso il Paese e verso le future generazioni ci impone di rivendicare con maggiore forza le nostre idee e le nostre convinzioni».

Dalle quali, a giudicare dalla “tavola” dei nove punti, è scomparso il niet al termovalorizzatore di Roma. Incardinato nel Dl Aiuti, sarebbe impossibile per il Movimento legarsi le mani su quel punto e poi votare la fiducia. Le divisioni sono fuoco che cova sotto la cenere. E sono difficili da sminare in questo clima. Se l’orientamento prevalente nelle riunioni ristrette era quello di dire sì alla questione di fiducia posta dall’esecutivo sul provvedimento ed astenersi nel voto finale, la plenaria con i gruppi ha ribaltato il verdetto: sarebbero state diverse decine i deputati che hanno minacciato di non partecipare al voto di domani. La situazione è più complicata a palazzo Madama dove la pattuglia di senatori che potrebbe non partecipare al voto è ancora più consistente. Rimanendo alta la tensione, il Pd entra in sofferenza. Enrico Letta, Dario Franceschini, Andrea Marcucci: ciascuno con i propri argomenti, mettono in chiaro che con un Movimento di lotta e di governo non si va avanti, neanche come partner di coalizione. Il timore degli alleati M5s nell’ex fronte rosso-giallo è che lo strappo possa avvenire nel giro delle prossime settimane. Ovvero in coincidenza della legge di bilancio. Conte ha sottolineato la responsabilità del Movimento ma ha alzato l’asticella sulle richieste e dovrà gestire da ora in poi l’insofferenza dei parlamentari.

L’intenzione del presidente M5s di non strappare adesso si scontra con la determinazione di chi nel Movimento ritiene sia giunto il momento di dare quel segnale di discontinuita’ chiesto dal giurista pugliese all’esecutivo. Dall’esterno Di Battista attacca: «Ci si dovrebbe chiedere come sia stato possibile ridurre la più grande forza politica del Paese nella succursale della pavidità e dell’autolesionismo. E anche oggi M5s esce dal Governo domani. O forse mai». Parole che potrebbero aver scatenato un ripensamento nello stesso Conte. Mentre i grillini recitano l’ennesima parte in quello che può essere uno degli ultimi episodi della loro stagione, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio vola a Milano e incontra Beppe Sala. Insieme per il Futuro e i Civici del Nord starebbero concertando una operazione congiunta. La politica colma i vuoti: per un Movimento che muore ce n’è uno, di segno nuovo, che sembra pronto a nascere.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.