Non basterebbe una galleria di medie dimensioni per contenere tutte le istantanee dei diversi Giuseppe Conte che si sono susseguite con effetti psichedelici da quando, il 21 maggio 2018, l’Italia si accorse della sua esistenza. Era uscito fuori dal cilindro di Luigi Di Maio, “capo politico” del M5S, che lo aveva proposto a Sergio Mattarella come futuro capo di un governo M5S-Lega. L’avvocato Giuseppe Conte da Volturara Appula (Foggia), 54 anni, bella presenza, eleganza un po’ provinciale ma curata, era il signor Nessuno. Non era neppure entrato in Parlamento con il plotone dei deputati e senatori per caso, quelli finiti sugli scranni grazie a una manciata di voti nelle “parlamentarie” on line del Movimento. Sulla carta per la verità un premier non parlamentare c’era già stato, però si chiamava Carlo Azeglio Ciampi, era stato governatore di Bankitalia, insomma non proprio uno sconosciuto.

Conte invece era proprio sconosciuto. Solo alcuni tra i giornalisti addottorati nei dettagli del grillismo lo ricordavano che Gigi Di Maio lo aveva già presentato al pubblico qualche mese prima, il 27 febbraio, come candidato ministro della Pubblica amministrazione in un eventuale governo tutto pentastellato, Ma in mezzo ai tanti papabili nessuno aveva fatto troppo caso all’oscuro avvocato. Ed eccolo di colpo capo del governo, con aria modesta e eloquio sin troppo umile. Il primo quadro ce lo mostra in effetti nella parte del prestanome, sotto tutela stretta dei veri potenti, i vicepremier e ministri di gran peso Gigi Di Maio e Matteo Salvini, futuri arcinemici. Faceva persino un po’ di tenerezza l’uomo che confessò di voler essere “l’avvocato del popolo”. Parlava come un leguleio un po’ azzeccarbugli più che come politico, faceva capire già con la postura fisica di essere ben consapevole dei propri limiti: vaso di coccio senza nessuna truppa, senza neppure la tessera del Movimento in tasca. Un premier per caso. Quando le telecamere lo sorpresero a colloquio con Frau Merkel, a notte inoltrata, in occasione di un vertice internazionale, l’inesistente considerazione della potentissima faceva quasi stringere il cuore.

Umiltà e modestia solo di facciata. Il premier per finta non aveva alcuna intenzione di restare un pupazzo a lungo. “Io la maggioranza volevo farla con il Pd mica con la Lega”, confessò ancora freschissimo di nomina a una parlamentare di sinistra. Proprio la competizione tra i due soci della maggioranza gialloverde gli offrì l’occasione di emergere e smarcarsi. Salvini correva come un treno ad altissima velocità, lievitava nei sondaggi. I 5S masticavano amaro, subivano l’iniziativa del tribuno che rubava scena e consensi. Dopo essersi per qualche mese uniformato allo stile comiziante di quella maggioranza, nell’epoca d’oro in cui Di Maio annunciava dai balconi di palazzo Chigi di aver sconfitto la povertà, Conte si autonominò l’anti-Salvini. Iniziò a prendere le distanze dalle trovate propagandistiche contro l’immigrazione che ingrassavano il nordico, frenò gli appetiti leghisti sull’autonomia rafforzata, arrivò a momenti di contrapposizione aperta. Agli occhi dei già tramortiti 5S chiunque sembrasse in grado di frenare il leghista sembrava il redentore. Si innamorarono dell’ex anonimo prestanome.

Ma non furono solo i grillini smarriti a guardare con interesse all’uomo che si contrapponeva all’impeto leghista. Anche i poteri italiani ed europei che lo avevano sino a quel momento considerato meno di zero si chiesero se non fosse proprio lui lo sconosciuto inviato dalla Provvidenza per domare e normalizzare i pargoli del “Vaffa”, quella variabile impazzita che stava facendo saltare ogni equilibrio. L’avvocato capì l’antifona, rispose alle aspettative. Con una manovra astuta spostò i voti determinanti dei 5S ex anti Ue a favore della nomina di Ursula von der Leyen alla presidenza della commissione europea. Tenne all’oscuro del progetto gli alleati leghisti che si ritrovarono così soli a difendere i bastioni del sovranismo antieuropeo mentre i 5S slittavano verso l’immagine di forza europeista, responsabile e ragionevole, accettabile. Dopo il prestanome e l’ “avvocato del popolo” emerse così il terzo quadretto di Giuseppe Conte: il normalizzatore. Lo scontro con Salvini era a quel punto inevitabile. Conte tende sempre a evitare il conflitto, è l’uomo del rinvio e del temporeggiamento anche oltre tempo massimo, ma quando si trova con le spalle al muro si batte bene e lo dimostrò in quell’estate del 2019. Il corpo a corpo parlamentare con il truce leghista gli valse un vero e proprio miracolo: la riconferma alla guida del governo successivo, con maggioranza opposta, fondato all’asse Pd-M5S. Spuntò un Conte “di sinistra”, l’uomo giusto per realizzare l’impensabile: un’alleanza non più coatta ed effimera ma stabile e progettuale tra il Movimento e il nemico di sempre, il Pd.

Miracolato in realtà Conte lo fu due volte. Pochi mesi dopo averlo confermato sul trono di palazzo Chigi, nel gennaio 2020, Matteo Renzi si preparava già a disarcionarlo. Poi arrivò il Covid e con il coronavirus arrivò anche l’apoteosi di “Giuseppi”, come da definizione trumpiana. Con la regia di un Rocco Casalino scatenato, Conte fu superlativo sul piano dell’immagine ma decoroso, date le immense difficoltà del momento, anche nella sostanza. Non che siano mancati errori anche gravi nella gestione della pandemia e la missione Recovery Fund non sarebbe andata lontana senza la pressione delle aziende tedesche, che avevano bisogno della componentistica italiana, e di conseguenza di Angela Merkel. Ma nel complesso Conte in quell’anno difficilissimo ha tenuto botta davvero e ha offerto al Paese l’immagine di cui aveva bisogno: quella di un governo rassicurante, decisionista e davvero partecipe del dramma che viveva il Paese.

Le quotazioni di Giuseppe Conte, già perfetto sconosciuto, s’impennarono. Difficile ricordare un’ascesa altrettanto folgorante, una popolarità più da divo dello spettacolo che da politicante. Incuranti del senso del ridicolo, i leader del Pd e della sinistra non esitavano a definirlo “insostituibile”. Invece era sostituibile e fu sostituito. Gli giocavano contro l’abilità manovriera di Renzi, la diffidenza degli Usa, che lo consideravano troppo corrivo con la Russia e con la Cina, l’ostilità di Di Maio, che si voleva liberare del rivale interno e lo costrinse a dimissioni tutt’latro che dovute quando una mozione di sfiducia stava per abbattere il ministro della Giustizia Fofò Bonafede. Ma anche, forse soprattutto i suoi limiti. Perché tra le tante immagini di Giuseppe Conte nessuna è più lontana dal vero di quella del decisionista. L’uomo, al contrario, è tra i più indecisi. Di fronte alle difficoltà sceglie sempre il rinvio. È privo di qualsiasi audacia. Accerchiato dalla manovra di Renzi non ebbe né il coraggio di rompere per primo né la determinazione nell’imporre elezioni, come avrebbe potuto fare, dopo la defenestrazione. Non se la sentì neppure di fondare un proprio partito per capitalizzare l’enorme consenso di cui godeva in quel momento.

Gli stessi difetti di carattere, non più controbilanciati dalla rendita di posizione garantita da palazzo Chigi, hanno reso un calvario l’esperienza di leader del M5S: un titolo al quale non ha mai corrisposto la sostanza. Il quadro del Conte capo di partito è quello di un leader dimidiato, sempre affannato, incapace di prendere in pugno la situazione, condannato quindi a vedere gli stellari consensi di un tempo calare con la stessa vertiginosa rapidità con la quale erano cresciuti. Costretto dagli eventi Conte ha cambiato ruolo e immagine: dopo essere stato il normalizzatore dei 5S prova a diventare il leader che li riporta alle origini, alla grinta populista, all’integrità fortemente venata di integralismo. Non è la sua parte in commedia. È la più distante dalla sua personalità, quella più ostica persino per un leader “buono per tutte le stagioni” come lui. È anche quella più penalizzata dai limiti di carattere: l’eterna indecisione, la prudenza che degenera in immobilismo, l’assenza di coraggio politico. Per questo non è escluso che sia l’ultima incarnazione di Giuseppe Conte sia anche quella finale.