Tutta l’Italia messa insieme deposita meno brevetti rispetto alla media di un qualsiasi distretto industriale sudcoreano. Vuol dire che un qualsiasi distretto industriale sudcoreano fa più ricerca e sviluppo, fa più investimenti in tecnologia, fa più innovazione rispetto all’Italia intera.
Questa parola, “brevetto”, evoca spesso realtà incongrue e puramente fantasiose. Pressappoco, l’idea è che si tratti di uno strumento di diabolica sopraffazione adoperato dai potentati di un neo-latifondismo tecno-economico per strangolare il mondo. In realtà il brevetto non è nient’altro che uno strumento competitivo: è il “ritorno”, costituito da una esclusiva monopolistica temporalmente limitata, che remunera l’attività inventiva e gli investimenti che la sorreggono.
Se l’operatore economico ha la prospettiva di quel “ritorno”, di quella remunerazione, investe. Altrimenti, no. Non c’è meno ricerca e sviluppo perché si brevetta meno: si brevetta meno perché c’è meno ricerca e sviluppo, e non è un caso che i paesi in cui si brevetta di più sono quelli economicamente più avanzati.
Quanto tutto questo c’entri con il “lavoro” di cui in Italia si lamenta la penuria e il basso trattamento economico non è difficile da capire.

Il confronto

Un sistema come quello italiano, con un’impresa detenuta al 45% dal potere pubblico, largamente affidata al sussidio, brevetta cinque, dieci, venti volte meno rispetto ai grandi investitori nell’innovazione: gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone, appunto la Corea del Sud e, per stare qui da noi, la Germania.
Che l’Italia, cioè la seconda manifattura d’Europa (almeno sinora, e non si sa per quanto), sia quella che meno si cura di competere nell’innovazione e con l’innovazione spiega abbastanza bene la differenza tra un garage di Avellino e uno californiano: questo magari anche più brutto e non più salubre di quello, ma da uno usciva un computer che voleva spazzare via la concorrenza e dall’altro nulla per quarant’anni e infine un modulo per il reddito di cittadinanza.
Né a giustificare la differenza si può chiamare in causa l’enormità di risorse del Paese americano, visto che uno scoglio nel pacifico, spianato da due bombe nucleari, allietato da venti tifoni all’anno, in mezzo secolo riusciva a dar fuori più tecnologia di tutto il consorzio europeo e ancora oggi è ai primi posti nell’investimento brevettuale.

L’ultimo posto

I numeri rilasciati dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy sul numero dei depositi brevettuali sono impietosamente rivolti a denunciare l’arretratezza italiana: nonostante una certa crescita dei depositi nell’ultimo decennio, si tratta poco più di diecimila in un anno a fronte dei numeri – moltiplicati, come si diceva, per cinque, per dieci, per venti – che possono vantare i protagonisti della scena.
Nel rapporto tra numero di abitanti e brevetti, siamo al diciannovesimo posto nel presidio del mercato europeo, quello in cui siamo in cima per capacità manifatturiera. L’arretratezza italiana è descritta molto bene da queste proporzioni.