Di quella che doveva essere una nuova stagione referendario restano cinque quesiti su otto. Non sarebbe male, se non fossero rimasti per strada i questi più “pesanti” o comunque quelli dotati di maggiore appeal in termini comunicativi, cioè quelli sull’eutanasia, sulla responsabilità civile dei magistrati e sulla cosiddetta legalizzazione della cannabis. Attenzione, sappiamo dai referendum del 1991 che quesiti apparentemente minori possono provocare terremoti, come fu per la riduzione della preferenza plurima ad unica all’epoca.

È egualmente vero che i quesiti rimasti sono tutt’altro che poco importanti, anzi sono dirompenti. È che semmai non hanno quella capacità di essere divulgati presso gli elettori e di mobilitarli, in particolare i giovani, come invece quelli non ammessi. Da qui un pericolo, che la giornata referendaria porti ad una votazione inutile per mancato raggiungimento del quorum. Sarebbe grave per il paese e per la Campania e vorrei spiegare perchè. Questo grappolo di quesiti nasce sull’onda di un rilancio dello strumento, propiziato anche dalla possibilità di raccogliere le firme in formato digitale. Nulla è cambiato nelle regole dei referendum, che da molti anni ormai non mobilitano più i cittadini. Questa volta sembrava un risultato più che possibile, e non sarebbe stato male riavvicinare in particolare i giovani a un’espressione qualificata di sovranità. Con il venir meno di due quesiti su altrettanti diritti civili (legalizzazione della cannabis e diritto a una “dolce” morte) vengono meno le principali attrazioni per un elettorato giovane che oggi si mobilità quasi solo per i diritti civili di nuova generazione (bioetica, questioni identitarie e ambientali).

Con l’aggravante di accantonare un tema assai maturo come la responsabilità civile dei magistrati e rinviarlo alle calende greche. Ora, al di là del merito dei quesiti, su cui questo giornale ha una posizione chiara e netta, va detto che prima ancora verrà poco di buono dal fatto in sè del mancato raggiungimento del quorum, da oggi a rischio. Perciò va tenuta viva la fiammella della partecipazione. I quesiti rimasti in piedi, pur toccando snodi organizzativi fondamentali e aspetti grande rilievo dello Stato di diritto, sembrano non rappresentare questione della vita quotidiana delle persone. Oltre a non essere così, perchè tutto si tiene, non mancherebbero comunque ripercussioni gravi sulle vite delle persone comuni, in particolare in regioni, come la Campania, disastrate dal punto di vista delle garanzie e del rendimento del servizio giustizia.

C’è il rischio che il fallimento dei referendum arresti una stagione di riflessione sui rapporti tra politica e giustizia che era ormai – dopo trenta anni! – giunta a un significativo punto di maturazione e riporti le lancette indietro, dando fiato a chi resiste a una seria riforma della giustizia. Il referendum non è certo uno strumento ottimale, ma sappiamo che il parlamento è incapace di fare qualunque riforma su tematiche sensibili, come la giustizia e le altre citate sopra. Non vorremmo che un mancato raggiungimento del quorum rendesse l’impressione che porre quei temi fosse sbagliato. Siamo la terra dove si sono registrati significativi passaggi da magistratura a politica, una regione protagonista nel correntismo della magistratura e inevitabilmente interessata dal delicato tema della alla distribuzione dei maggiori incarichi.

Il cittadino campano non avrebbe proprio nulla da guadagnare se tutto restasse così come è: una specie di palude, una giustizia lenta, farraginosa, talvolta troppo contigua alla politica. Lo diciamo con tutto il rispetto per tanti magistrati che lavorano sodo e lontano da impegni associativi, peraltro di per sè non deprecabili. Le cose non vanno bene. Per questa ragione non è nell’interesse della Campania che la tensione per i referendum venga meno.