Nessuna soddisfazione per il rinvio a giudizio di un magistrato, Piercamillo Davigo, proprio nell’anniversario di Mani Pulite. Ma grande rammarico per la decisione tutta politica della Corte Costituzionale che ha dichiarato inammissibile il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Sono gli unici a non pagare mai, dopo l’abolizione dell’immunità parlamentare fin dal 1993, in piena stagione Mani Pulite, quando quelli come Davigo facevano il bello e il cattivo tempo, dando la linea anche al potere legislativo e all’esecutivo. Ma non è solo consolatorio, è anche molto positivo sapere che ci sono altri cinque referendum sulla giustizia che ci aspettano nella cabina elettorale. Anche sa sappiamo che non sarà una scadenza facile.

Non sarà facile comunicare ai cittadini che poco sanno di codici e pandette l’importanza di andare a votare perché nessuno entri mai più in carcere senza processo, perché nessun sindaco venga rimosso prima di una sentenza definitiva, perché chi mi accusa non sia pappa e ciccia con chi poi mi dovrà giudicare e perché il Csm non sia più la fogna che è stato e il voto i magistrati non debbano darselo solo tra loro. Non sarà facile spiegarlo e i concetti andranno anche meglio precisati (vediamo già qualche toga arricciare il naso per le inesattezze tecnico-giuridiche, ma non stiamo parlando di simposi di giuristi) e approfonditi, ma si può fare. Possiamo farcela. Questa volta noi del Riformista possiamo anche essere giornalisti militanti. Per la giustizia, per i cittadini. Per Enzo Tortora, per Gabriele Cagliari e Sergio Moroni.

Anche per Silvio Berlusconi, che per fortuna è sopravvissuto anche a quel giorno del 2013, in cui è stato buttato fuori dal Senato in seguito a una sentenza per cui ancora pende un ricorso alla Corte Europea e a un’interpretazione della norma sulla cui irretroattività si erano pronunciati diversi costituzionalisti. Fu una decisione politica, di cui speriamo si sia pentito (ma lo dichiari pubblicamente, per favore) l’allora segretario del Pd e neo-garantista Matteo Renzi, che domani sarebbe impedita, in caso di vittoria dei SI. Anche e soprattutto perché, se quello fu il caso più clamoroso di applicazione della “Legge Severino”, non fu certo il più grave. Gravissima è stata la falcidie di amministratori locali sospesi dalla carica e messi alla gogna come delinquenti solo per sentenze di condanna di primo grado. Spesso espulsi dalla politica. Pur se innocenti secondo la Costituzione. E votati dai cittadini. Cioè scelti dagli elettori e cacciati da qualche funzionario vincitore di concorso.

Toghe che sono state fino a poco tempo fa, finché uno di loro, Luca Palamara, non ha gridato “il re è nudo”, complici tra loro, qualunque ruolo ricoprissero, pubblici accusatori o giudici, legati indissolubilmente dall’unicità della carriera e del concorso, ma anche da una quotidianità simbiotica da cui ogni altro soggetto processuale è escluso e che li chiude in una bolla senza porte né finestre molto simile alle monadi di Leibinitz. Non è stato proprio un giudice milanese come Guido Salvini a denunciare di recente (trent’anni dopo, un po’ tardi forse) il “trucchetto” del glorioso pool Mani Pulite per cui le loro inchieste finivano tutte in un unico anonimo fascicolo nelle mani dello stesso gip? Il dottor Italo Ghitti è stato sicuramente sempre “terzo” e imparziale nelle sue decisioni.

Del resto il Csm non lo ha “prosciolto”, dopo che lui aveva scritto un bigliettino al pm Di Pietro perché modificasse un provvedimento in modo da poter arrestare un indagato? D’accordo, tutti onesti e al di sopra di ogni sospetto, ma qualcuno vada a spiegarlo ai cittadini che dovranno votare sulla separazione delle carriere (pardon, funzioni) tra avvocati dell’accusa e giudici. I cittadini sono sospettosi, sappiatelo, cari procuratori amici del giudici. Non sono sempre tutti garantisti come noi. E quel che sta succedendo alla Procura di Milano, con divisioni e litigi tra vecchi amici, una parte dei quali è finita sotto inchiesta a Brescia, non depone proprio a favore della carriera unica dei magistrati. Così come la vaga illusione della mitica “cultura della giurisdizione” per cui (lo impone il codice) i nostri pubblici ministeri sarebbero affannati ogni giorno nella ricerca anche delle prove a favore dell’indagato.

Ci vorrebbe la troupe di “Chi l’ha visto?” per trovarne uno. Anzi, no, uno c’è stato: il procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio in favore del funzionario comunista Primo Greganti (di cui mi dicono essersi esibito due sere fa con urla e strepiti a Porta a porta), per salvare dall’inchiesta aperta da Tiziana Parenti il tesoriere del Pds Marcello Stefanini e affossare le indagini sul partito della sinistra. Ma il pool mani Pulite non faceva politica, nooo. Ma questo referendum è dedicato anche a Giancarlo Pittelli e a tutti quelli che come lui hanno subito, e stanno subendo, il carcere senza processo. Dovrebbero essere giudicati da liberi, se non sono pericolosi per l’incolumità fisica degli altri. È ipocrita chiamarla custodia cautelare, la galera prima di una sentenza definitiva è galera, è pena anticipata, è tortura. È vero che il quesito su cui andremo a votare riguarda solo l’esclusione della ripetizione del reato come una delle tra cause della detenzione preventiva, e solo per reati la cui pena massima non superi i cinque anni.

Ma la portata simbolica di questo referendum è enorme. Ha molto a che fare con la paura che prende ogni cittadino quando mette piede in un tribunale. Non importa se sia in veste di testimone o di soggetto di una causa civile o imputato in un processo penale. I palazzi di giustizia sono come la balena che ha inghiottito Pinocchio, solo che è difficile uscirne illesi. Se sei caduto nel buco nero, soprattutto se hai avuto modo di assaggiare anche un solo giorno di detenzione, porterai ammaccature (e quelli che Rosa Luxemburg chiamava i lividi dell’anima) per tutta la vita.
Per tutto ciò è scandaloso e indizio di pusillanimità da parte di Giuliano Amato e gli altri giudici dell’Alta Corte aver dichiarato inammissibile il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Intanto, se mettiamo questa decisione insieme alle altre due, quella sul fine vita e quella sulla cannabis, vediamo che l’operazione chirurgica ha un sapore profondamente politico. Proprio roba da “dottor sottile”, quello vero che non è Piercamillo Davigo.

Lui non ci avrà proprio pensato, e noi come sappiamo siamo molto maliziosi, ma quando andremo a votare forse non avremo al nostro fianco i giovani e i malati e i loro amici e parenti cui stavano a cuore i due quesiti di ordine sociale. Ma neanche tutti gli arrabbiati, e i loro parenti e amici, cui la malagiustizia ha rovinato la vita e che non sono riusciti ad avere nessun ristoro, né morale né economico, dopo l’assoluzione. Un mio caro amico l’ha risolta così, come “vendetta” nei confronti di un giudice che aveva distrutto la vita di suo padre, onesto imprenditore, con un’accusa infame.

Questo probo cittadino era morto d’infarto, altra forma di suicidio, e poi, evento rarissimo, era stato assolto “post mortem”. Così il figlio ogni anno e per molti anni finché il magistrato non era andato in pensione, nell’anniversario della perdita del padre gli aveva telefonato per ricordargli quel che gli aveva fatto. È così che dobbiamo immaginare di risolvere il problema della responsabilità del magistrato che sbaglia, che si accanisce, che distrugge la vita delle persone?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.