“Provo tanta tristezza pensando alle persone più vulnerabili le cui richieste resteranno inascoltate”. È amara Mina Welby dopo aver appreso la decisione della Corte costituzionale che ha ritenuto inammissibile il quesito referendario sull’eutanasia perché “a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.

Ed è proprio questo che fa più male a Mina Welby, il fatto che siano stati tirati in ballo i più deboli. Suo marito Piergiorgio intraprese una lunga battaglia per arrivare alla scelta riconosciuta per legge di porre fine alla propria vita. Dopo la guerra giudiziaria, persa, il 20 dicembre del 2006 a Piergiorgio Welby, sedato, fu staccato il respiratore secondo la sua volontà. Il funerale laico venne celebrato il 24 dicembre 2006, in piazza Don Bosco nel quartiere Tuscolano a Roma, di fronte alla chiesa che i familiari avevano scelto per la cerimonia religiosa che non fu concessa.

Seguì un procedimento giudiziario contro il medico che staccò il respiratore: il dottore si assunse la responsabilità di avere aiutato a morire Welby. Fu accusato di omicidio del consenziente ma il Gup poi lo prosciolse. Mina allora raccolse il testimone di Piergiorgio continuando il percorso per il riconoscimento legale dell’eutanasia, promuovendo la raccolta di firme per il referendum e supportando l’eutanasia di altri individui.
Oggi arriva per Mina Welby una grandissima delusione: “Io ero sicura che la Corte avrebbe deliberato a favore di questo referendum e sono rimasta molto delusa – ha detto all’Ansa – Rimane l’ultima ‘speranza’ del Parlamento…Vorrei personalmente fare qualcosa per sensibilizzare al tema, non so ancora cosa”.

Il calvario suo e di suo marito, Mina Welby lo ha raccontato in un lungo post su Facebook. “Ho sentito morire me stessa accanto a mio marito, Piergiorgio Welby – ha scritto qualche tempo fa – Era il 20 dicembre 2006. Tracheostomizzato per la ventilazione polmonare per colpa mia (non l’avrei dovuto portare in pronto-soccorso)”.

“Da allora abbiamo vissuto insieme nove anni di via crucis – continua il post – Le tracce di sofferenza di quell’eroe di mio marito le trovo nei suoi scritti, nei suoi disegni. Lui mai un lamento, né con me, né con chi lo venne a trovare. Dopo i primi quattro anni un peggioramento grave gli diede la spinta a chiedere aiuto, non per guarire, ma per cambiare qualcosa nella presa in carico di sé stesso e di cittadini che come lui erano condannati a una sopravvivenza costrittiva, per una macchina senza cuore né anima o come Eluana Englaro in stato vegetativo con nutrizione artificiale”.

“La disobbedienza civile di Marco Cappato per aiutare Fabiano Antoniani era salutata dai cittadini che in questi problemi sono entrati per esperienza di sofferenza personale o di amici. La voce silenziata di Fabo che i giovani conoscevano, ha emesso quell’urlo che ha insegnato che la vera libertà non muore mai. Per vivere ancora ha voluto poter morire”.

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Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.