1. In termini di politica del diritto, il referendum “eutanasia” rappresenta l’estrema chance. Approvato a furor di popolo (come le indagini demoscopiche prevedono), costringerà finalmente le Camere a ridefinire l’area della punibilità circa le scelte di fine vita, ancora oggi presidiata dal codice Rocco. Tutti gli altri tentativi, ad oggi, non hanno vinto sull’ignavia legislativa. La legge d’iniziativa popolare, depositata nel 2013, ha attraversato le ultime due legislature come un oggetto non identificato. Il giudicato costituzionale (sent. n. 242/2019), ottenuto grazie alla disobbedienza civile di Marco Cappato, fatica a trovare applicazione per le resistenze delle aziende sanitarie.

Il monito rafforzato rivolto al legislatore dalla Consulta (ord. n. 207/2018) è caduto nel vuoto di un Parlamento che non riesce nemmeno ad approvare un testo di legge che ricalca, malamente, quanto già stabilito dai giudici costituzionali. Se anche la via referendaria verrà sbarrata, non ci sarà rimedio alcuno. Se non quello all’italiana: nella penombra delle corsie d’ospedale, con la complice comprensione del medico di turno. O, per chi può, oltre il confine italo-elvetico.

2. Il quesito riguarda la fattispecie di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.). La relazione del Guardasigilli dell’epoca (1929, VIII dell’era fascista) ne giustifica la punibilità al fine di conservare «quel particolare bene giuridico che concerne l’esistenza fisica della persona». Per l’ideologia di cui Alfredo Rocco è il ventriloquo la vita non è un diritto personalissimo, rappresentando invece «un prevalente interesse sociale». In questa visione organicistica, il consenso validamente espresso alla propria morte non evita la punibilità di chi ha dato esecuzione alla volontà altrui; ne tempera soltanto la misura della pena. Il referendum si ribella a tale logica, interrogando gli elettori su un dilemma: la vita è un dovere sociale o un diritto individuale? Il sì alla richiesta abrogativa offre una risposta, introducendo nell’ordinamento il principio di disponibilità della propria vita e assicurando, nel contempo, il rispetto della vita altrui. Vediamo come.

3. Il quesito agisce chirurgicamente sull’art. 579 c.p.: attraverso l’abrogazione di alcune sue parti e l’automatica saldatura delle rimanenti, ottiene due risultati normativi. Il primo è un esplicito effetto conservativo: la conferma della punibilità a titolo di omicidio comune (art. 575 c.p.) per la morte del consenziente, se si tratta di un soggetto “vulnerabile” perché minore, o perché le sue condizioni personali escludono l’autenticità del consenso prestato, o perché quel consenso è stato estorto o carpito con inganno.

Il secondo, invece, è un implicito effetto innovativo: al contrario, una persona di maggiore età, sana di mente, capace di esprimere un libero consenso, potrà validamente autorizzare la propria morte, senza conseguenze penali per chi l’abbia materialmente determinata. Non si tratterà di una generalizzata “licenza di uccidere” né di una “corsa a farsi ammazzare” anche fuori da qualsiasi contesto eutanasico, come qualcuno paventa. Per rendersene conto, basta conoscere la granitica giurisprudenza sull’art. 579 c.p., rigorosissima nel vagliare la validità del consenso prestato, di fatto sempre esclusa. Oggi, chi uccide una persona invocandone il previo consenso deve mettere in conto un’incriminazione e una (pressoché) certa condanna per omicidio volontario. Giocoforza, il principio di autodeterminazione – introdotto dal voto popolare – potrà legittimamente operare solo all’interno della legge n. 219 del 2017 in tema di consenso informato, che la stessa Consulta richiama nella sua decisione sul “caso Cappato”. Fuori da tale procedura, il consenso sarà valutato come invalido e la condotta di chi ha ucciso ricadrà nel reato di omicidio doloso.

4. Questa è la radiografia del quesito e delle sue conseguenze, da tenere presente per diagnosticarne l’ammissibilità. Diagnosi complicata dall’estrosa e creativa giurisprudenza referendaria della Consulta, dove «tutto deve essere motivato» ma dove «tutto è motivabile» (così, icasticamente, il suo ex Presidente Gaetano Silvestri). Si può tentare una rassegna degli ostacoli da superare per arrivare a votarlo. Con una raccomandazione preliminare: nel modello costituzionale il referendum è la regola, l’inammissibilità l’eccezione. Non viceversa. È questo – credo – il senso autentico delle recenti parole che, alla vigilia dell’udienza del 15 febbraio, il Presidente della Consulta Giuliano Amato ha inteso rivolgere a tutti, giudici costituzionali in primis.

5. Si è detto che il referendum in esame sarebbe il risultato di un arzigogolato “taglia&cuci”, spia di una sua vietata natura manipolativa. È una critica fuori fuoco. La tecnica del ritaglio «non è di per sé causa di inammissibilità del quesito» (sent. n. 26/2017). Lo è solo quando il testo legislativo inciso è adoperato come un canestro di parole da cui estrarre, combinandole artificialmente, un’innovazione «del tutto estranea al contesto normativo» originario (sent. n. 36/1997). Ma non è questo il caso. Certamente manipolativo sul piano delle disposizioni, il suo esito è quello tipico di un (ammissibile) referendum abrogativo parziale che cancella dall’art. 579 c.p., depenalizzandola, la fattispecie speciale dell’omicidio di chi ha espresso validamente il consenso alla propria morte.

6. Il quesito – si insiste – sarebbe inammissibile per il suo carattere propositivo, mirando surrettiziamente a introdurre una norma inesistente, dal contenuto profondamente diverso da quella in vigore. È una critica sbagliata, se riferita all’esplicito effetto conservativo del referendum, che ribadisce quanto già oggi prevede l’art. 579, comma 3, c.p. È una critica irricevibile, se riferita invece al suo implicito effetto innovativo: perché abrogare è «disporre diversamente», come insegnava Vezio Crisafulli annoverando il referendum tra le fonti del diritto, abilitato a innovare l’ordinamento. Cosa che può fare sostituendo a quanto previsto il suo opposto: sia abrogando in toto una legge, sia rovesciandone il contenuto normativo attraverso un’abrogazione parziale. Sta proprio qui la carica antagonista del voto popolare contro l’indirizzo politico espresso dalla legislazione in vigore, sulla quale il referendum può intervenire con la scure o con il bisturi. Quel voto non è un mero emendamento su un testo altrui, ma una decisione in proprio.

7. L’ammissibilità del quesito è contestata anche per le sue conseguenze, lesive del bene costituzionale della vita. Ma è davvero così? Quanto all’intangibilità della vita altrui, il referendum non abroga integralmente l’art. 579 c.p., e conferma l’automatica riespansione della punibilità per omicidio doloso, se il consenso della vittima non è validamente prestato. Tanto basta ad assicurare il livello minimo di tutela del diritto costituzionalmente garantito dalla norma oggetto del quesito, come esige la Consulta (cfr. sentt. nn. 26/1981 e 35/1997, entrambe riguardanti quesiti abrogativi parziali della legge sull’aborto).

Quanto alla possibilità di disporre della vita propria, sulla base di scelte personali libere, consapevoli, informate, è esattamente quanto s’intende rimettere alla decisione popolare. E lo si può fare perché – come il reato di aiuto al suicidio – l’incriminazione dell’omicidio del consenziente non è vietata dalla Costituzione, ma neppure imposta. Il quesito, dunque, non riguarda una norma costituzionalmente vincolata e perciò sottratta all’abrogazione (legislativa o popolare). Salvo non voler annoverare Alfredo Rocco tra i precursori della Costituzione repubblicana, a sua insaputa.

8. In realtà, una bocciatura del referendum motivata con un presunto vulnus al bene costituzionale della vita mal celerebbe un sindacato anticipato sulla legittimità dei suoi esiti normativi. Si tratterebbe di uno sviamento funzionale del compito spettante alla Consulta, chiamata a giudicare esclusivamente l’ammissibilità del quesito abrogativo, non anche la costituzionalità dei relativi effetti sull’ordinamento.

Si tratta di due competenze diverse, dalle finalità non sovrapponibili, governate da scadenze temporali e regole processuali differenti. Anche quanto a flessibilità delle relative decisioni, perché nel giudizio sulla costituzionalità di una legge la Corte può sottrarsi alla logica necessariamente binaria del giudizio sul referendum (ammissibile o inammissibile). Faranno bene i giudici costituzionali a tenere separati i due piani, se non vogliono esporsi all’accusa di negare arbitrariamente il diritto di voto, indebolendo così la propria legittimazione.

9. Ciò vale anche in replica a chi paventa il caos normativo perché, con la vittoria dei sì nel referendum, si finirebbe per punire l’aiuto al suicidio e non l’omicidio del consenziente, che pure è reato più grave del primo. È un argomento suggestivo ma non persuasivo, perché la produzione continua di norme è sempre fonte di potenziali antinomie con quelle precedenti. L’ordinamento giuridico appresta strumenti per risolverle: l’interpretazione dei giudici; l’impugnazione a Corte della norma di dubbia costituzionalità; la sopravvenuta modifica legislativa. Rimedi che scattano nel momento applicativo della legge o alla luce di esso. Non prima, nella fase della produzione normativa, legislativa o referendaria che sia.

10. In che senso la morte vada intesa come un fine (è la fine o il fine della vita?) è opzione personale. Tale è anche la decisione di come arrivarci, specie quando il corpo abitato si fa intollerabile prigione. Sotto la crosta giuridica, sono questi gli interrogativi che il quesito pone. Sono domande di senso sulle quali è impossibile un accordo unanime. In questi casi, una democrazia liberale non vieta né impone una condotta, lasciandola a una libera scelta circondata di giuste cautele e adeguate procedure. Nei limiti di un atto abrogativo di norme vigenti, il referendum va in questa direzione. La sola rispettosa di tutti.

(3-Fine)