1. Il 31 ottobre è scaduto il termine per depositare in Cassazione le richieste referendarie. La chiusura della campagna di raccolta firme offre, già ora, dati a consuntivo di sicuro interesse. Allineamoli.
Sono state promosse 5 iniziative referendarie: in tema di giustizia (6 quesiti), eutanasia legale (1), depenalizzazione della cannabis (1), abolizione della caccia (1) e del green pass (4). Un altro quesito, abrogativo del reddito di cittadinanza, benché annunciato urbi et orbi non è mai stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
Sono tutti referendum d’iniziativa popolare cui si è affiancata, per i soli quesiti sulla giustizia, identica richiesta di 9 Consigli regionali.
Tutte le iniziative hanno beneficiato di importanti novità procedurali: allargamento della platea di autenticatori (ora inclusiva anche di avvocati, consiglieri regionali, parlamentari); proroga del termine per la raccolta e il deposito di firme e certificati elettorali (differito di un mese); possibilità (a far data dal 1° luglio) di sottoscrivere digitalmente i quesiti.
Il numero approssimato di sottoscrizioni raccolte, dichiarato dai comitati promotori, varia per ogni iniziativa. Giustizia: 4.275.000 firme totali (di cui 18.000 digitali), tra le 700.000 e le 750.000 a seconda del quesito. Eutanasia: 1.222.000 (di cui 388.000 digitali). Cannabis: 630.000 (di cui 606.880 digitali). Caccia: 520.000 (di cui 73.800 digitali). Green pass: ignote le cifre ufficiali evidentemente insufficienti per il deposito in Cassazione, non avvenuto. Così come non c’è stato per le firme dei quesiti sulla giustizia, a sostegno dei quali sono state formalizzate le sole delibere regionali.
Sulla regolarità delle richieste depositate deciderà l’Ufficio Centrale di Cassazione; a seguire, sarà la Corte costituzionale a pronunciarsi sull’ammissibilità dei singoli quesiti. Anche i termini per tali operazioni di controllo sono stati differiti di un mese: al 30 novembre (Ufficio centrale), al 10 febbraio (camera di consiglio della Consulta), al 10 marzo (pubblicazione delle sue sentenze).
Che cosa racconta questa messe di dati?

2. Ridimensiona, innanzitutto, l’urlato pericolo per il sopravvento di un’arrembante click-crazia, sicaria della democrazia rappresentativa.
Abaco alla mano, la possibilità di raccolta online delle firme si è rivelata indispensabile solo per 2 quesiti (cannabis, caccia), non è stata determinante per 7 quesiti (giustizia, eutanasia), non ha evitato il fallimento di 4 quesiti (green pass), né è servita a far decollare un referendum annunciato (reddito di cittadinanza).
Dunque, non basta la tecnologia per assicurare consenso referendario. Può rivelarsi necessaria ma non è sufficiente: a fare la differenza, più che il vettore, è il merito del quesito, promosso da un comitato riconoscibile, credibile, capace di fare rete tra persone e associazioni.
Nessuna deriva tecno-populista è automaticamente trainata dalle firme digitali. Neppure se al servizio di referendum su un tema mediaticamente dopato, qual è il ribellismo contro il green pass e «qualsiasi altro strumento di coercizione e di controllo sociale» governativo (sic, nel sito del comitato promotore).
Nessuna torsione referendaria in chiave antiparlamentare. L’antiparlamentarismo è l’anticamera di ogni fascismo. Il referendum, invece, avvia con le Camere una competizione potenzialmente feconda (e costituzionalmente garantita) sulla disciplina oggetto del quesito. Le richieste depositate questo fanno, grazie anche alle firme digitali.

3. Se così è come i dati mostrano, sbagliano bersaglio i rimedi proposti contro la paventata spid-democracy: volendo arginarne l’abuso, ostacolano l’uso dello strumento referendario.
Preliminarmente, tali proposte muovono da un malinteso: la digitalizzazione delle firme rappresenta un rimedio, non un problema da risolvere. Infatti, la si è introdotta perché l’Italia è stata condannata dal Comitato Diritti Umani dell’ONU per le «restrizioni irragionevoli» che la legge n. 352 del 1970 impone alla partecipazione al procedimento referendario. Per ciò la legge n. 178 del 2020 obbliga il Governo a realizzare – a decorrere dal 1° gennaio 2022 – una piattaforma pubblica per la raccolta online delle firme necessarie a iniziative referendarie (e legislative) popolari. Tale modalità di raccolta è stata transitoriamente anticipata – a spese dei promotori – con un emendamento al decreto semplificazioni (n. 77 del 2021) approvato all’unanimità, contro il parere del Ministero di giustizia.
L’emendamento dell’on. Magi, dunque, si è innestato su una scelta legislativa dovuta, pregressa, consapevolmente anticipata. Non nasce da astuzia luciferina, semmai dall’intelligenza politica di chi sa esercitare il mandato parlamentare, nel solco della migliore scuola radicale.

4. Guadiamoli allora, questi rimedi. L’idea di innalzare la soglia costituzionale delle 500.000 firme è motivata come adeguamento alle dimensioni del corpo elettorale: 50 milioni, contro i 30 milioni del 1948.
È una premessa sbagliata. Se i Costituenti avessero inteso esprimere una proporzione tra firme referendarie ed elettori, non avrebbero indicato una cifra assoluta ma una percentuale (come, in origine, negli artt. 56 e 57 della Costituzione sul numero di deputati e senatori). Quella soglia, in realtà, esprime convenzionalmente la serietà della richiesta referendaria: a questo serve, non ad ostacolarne l’iniziativa. Sul come raccoglierle poi, la Costituzione nulla dice, tantomeno che lo si debba fare al rallentatore.
Preso sul serio, l’aggiornamento proposto collocherebbe l’asticella a quota 920.000 sottoscrizioni. Un’enormità. Poco meno delle firme richieste per l’iniziativa legislativa popolare europea: 1 milione (a fronte però di 450 milioni di cittadini comunitari); soglia raggiunta, in 10 anni, solo 6 volte.

5. È già disegno di legge (C. n. 3284) l’anticipazione del giudizio di ammissibilità del referendum a quando ha ottenuto, entro un mese, almeno 100.000 sottoscrizioni (e non più di 120.000). Si eviterebbero così «possibili frustrazioni» per le centinaia di migliaia di firmatari, consentendo alla Consulta di «pronunciarsi con serenità».
Posso dire? Una Corte costituzionale, istituzionalmente chiamata a opporsi a norme (illegittime) del Parlamento o del Governo, non abbisogna di simili cautele. Le sue decisioni referendarie non sono una variabile dipendente dal numero delle firme raccolte. Le critiche ad esse rivolte non si appuntano sul loro esito ma sulla loro imprevedibilità, dovuta a una giurisprudenza labirintica e contraddittoria. Superato il controllo preventivo dell’Ufficio centrale, 100.000 firme basterebbero per elevare prematuramente una ridotta falange di sottoscrittori a potere dello Stato. Infine, si moltiplicherebbero oltre il necessario gli interventi della Corte.

6. Le Camere avranno tempo per razionalizzare la novità delle sottoscrizioni online: combinando l’arco temporale di raccolta, il divieto di nuovi referendum nell’ultimo anno di legislatura e nei primi 6 mesi della nuova, se ne riparlerà tra 3 anni.
Per i quesiti già depositati, invece, si prospetta il voto in primavera. Salva una loro ecatombe in Cassazione o alla Consulta. E salva l’ipotesi di elezioni anticipate, come già accaduto (nel 1972, 1976, 1987, 2008) quando le Camere furono sciolte per evitare consultazioni referendarie già convocate. Tentazione che potrebbe riaffiorare, pur di sottrarsi alla logica binaria del voto e guadagnare tempo utile a disinnescarlo con mirati interventi legislativi.
Voteremo altrimenti su quesiti numerosi e tematicamente differenti. In passato (nel 1990, 1997, 2000, 2003, 2005, 2009), la loro moltiplicazione ha scoraggiato la partecipazione fino a invalidarne il voto. Non è dunque necessariamente vero che più quesiti, richiamando platee diverse che si sommano, assicurino il raggiungimento del quorum.
Questa volta, però, la loro rilevanza rende plausibile sia una massiccia affluenza alle urne che un voto differenziato (come già nel 1995: 12 quesiti, 5 approvati, 7 bocciati). Ne deriverà un positivo corollario: «l’astensionismo strategico diventa troppo rischioso e quindi i contrari saranno indotti a partecipare» (Vassallo).

7. Vedremo. La storia referendaria ci ha abituato a tutto. Mai però si era visto, prima d’ora, il suicidio di un comitato promotore che dichiara di aver raccolto le firme ma non le deposita. Legittimando così qualsiasi retropensiero, anche quello di un numero talmente alto d’irregolarità nella raccolta da precludere la soglia delle 500.000 firme necessarie.
Il comitato promotore dei referendum sulla giustizia esce così di scena, abbandonando ai delegati regionali (tutti leghisti) i 6 quesiti e perdendo ogni potere d’iniziativa costituzionale in loro difesa. In concreto: non potrà costituirsi davanti alla Consulta o contestare le decisioni dell’Ufficio Centrale. Non potrà sollevare conflitti d’attribuzione a tutela della «genuina manifestazione della sovranità popolare» (sent. n. 161/1995) contro Governo, Parlamento, Commissione di vigilanza. Non usufruirà di appositi spazi televisivi per la comunicazione referendaria.
Di più. La scelta fatta capovolge la titolarità del potere d’iniziativa referendaria, che la Costituzione riconosce ai sottoscrittori «istituzionalmente rappresentati dai promotori» (sent. n. 69/1978). Il comitato ha agito, invece, come se quel potere fosse suo, sacrificandone gli autentici titolari alle proprie strategie. Servirsi degli elettori (e dei propri militanti) fingendo di esserne al servizio è proprio di partiti a guida autocratica. Della Lega si sapeva e non sorprende. Ma che il Partito Radicale subisca abbozzando, delude e lascia increduli. All’avvio della campagna referendaria (Il Riformista, 11 giugno 2021) ci si interrogava su chi, tra i due alleati, ne avrebbe avuto l’egemonia: la risposta è arrivata.