In Italia l’aiuto al suicidio assistito è già legale, alla presenza di 4 condizioni stabilite dalla Corte Costituzionale, ma tale diritto viene violato dal sistema sanitario, che si nasconde dietro la mancanza di una legge giocando impropriamente sulla pelle dei malati. Ma se l’aiuto al suicidio è già legale, a cosa serve una legge? Per evitare ad altri italiani lo stesso calvario che sta vivendo Mario (nome di fantasia) uomo di 43 anni, tetraplegico da 10 a causa di un incidente stradale. Il 27 agosto 2020 ha chiesto alla struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale di essere sottoposto alla verifica delle condizioni e delle modalità per poter procedere con l’aiuto al suicidio medicalmente assistito.

Dopo un diniego senza che fosse eseguita nessuna delle verifiche previste dalla Consulta, e dopo due procedimenti in tribunale, l’ultimo con decisione del 9 giugno 2021, ha ottenuto l’ordine all’azienda sanitaria di verifica del suo stato e della idoneità del farmaco a indurre una morte veloce, indolore e rispettosa della sua dignità. Nelle scorse settimane ha ricevuto il parere del Comitato etico: Mario possiede tutte le condizioni indicate dalla Corte costituzionale nella sentenza Cappato, che ha reso lecito l’aiuto al suicidio medicalmente assistito. Dopo 16 mesi dalla richiesta, manca però ancora la verifica del farmaco e delle modalità di auto somministrazione. “Mario” non è caduto in un vuoto normativo, ma in una piena violazione di una sentenza costituzionale . In assenza di una norma specifica sull’aiuto al suicidio, la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 580 del codice penale, ancorando la tutela della persona e dei suoi diritti a norme esistenti senza creare alcun vuoto normativo. Ma ripercorriamo i passaggi tramite le stesse motivazioni della Corte.

Chiamata a pronunciarsi sul reato di aiuto al suicidio previsto dall’articolo 580 del codice penale, la Corte ha rilevato che l’incriminazione assoluta dell’aiuto al suicidio non è compatibile con la Costituzione e che la legge 219 del 2017 sulle Disposizioni anticipate di trattamento riconosce a ogni persona «capace di agire» il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, anche se necessario alla propria sopravvivenza. Non solo: è legittimo chiedere la sedazione palliativa profonda per lenire sofferenze intrattabili e questa «disposizione non può non riferirsi anche alle sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto di trattamenti di sostegno vitale (…)scelta che innesca un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito – non necessariamente rapido – è la morte». Il divieto assoluto di aiuto al suicidio dunque finirebbe per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze e imponendogli un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione sia giustificata dalla tutela di un altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza. La Corte nel 2018, ha rilevato quindi un vulnus in materia di diritti e di libertà alla luce della piena osservanza della Carta costituzionale. Nel 2019 pronunciandosi sul merito la Corte si è fatta carico dell’esigenza di evitare, i “vuoti di disciplina”, non limitandosi a un annullamento “secco” della norma incostituzionale, ma ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari.

La Corte ha così dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 580 del codice penale «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente». Come stabilito dall’articolo 136 della Costituzione e dall’articolo 30 della legge 87 del 1953, il giudicato costituzionale entra in vigore dal giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta ufficiale come avviene per le leggi, salvo disposizioni diverse all’interno della disposizione stessa. Dunque dal 28 novembre 2019 la decisione di incostituzionalità è immediatamente applicativa, è solo da osservare, rispettare, applicare. Le strutture del servizio Sanitario Nazionale devono solo verificare le condizioni della persona malata e le modalità per procedere, previo parere del Comitato etico. Questo è quanto prevede la sentenza n. 242/19 di incostituzionalità affinchè l’aiuto prestato non sia reato. Se il Parlamento intende trasformare in norma questa sentenza, dovremmo avvisare il legislatore che ha già valore di legge. La Consulta ha ribadito nella decisione l’invito a legiferare al Parlamento ma su cosa, vi chiederete. La sentenza ha valore di legge ma c’è bisogno di una legge? Potrebbe sembrare contraddittoria come affermazione. Spieghiamo perché non lo è.

La norma nel rispetto del principio di uguaglianza deve garantire a carico del Servizio Sanitario Nazionale l’espletamento della procedura di aiuto al suicidio; tempi certi di risposta al malato; garanzia di rispetto delle proprie volontà anche per chi con patologia irreversibile che produce sofferenze non ha ancora trattamenti di sostegno vitale; garanzia di erogazione dell’assistenza a carico del Servizio Sanitario Nazionale. La Corte costituzionale in base ai propri poteri, chiarendo nelle motivazioni che il dispositivo di incostituzionalità si applica dalla pubblicazione della sentenza, ha potuto solo intervenire nel rispetto della volontà del malato e della non punibilità di chi lo aiuta ancorando la tutela dei diritti a norme pre esistenti (l.219/19), affinché in attesa del Parlamento nessuna persona potesse subire la violazione dei propri diritti in attesa di una norma, fornendo di fatto gli elementi per procedere già per i malati che ne facciano richiesta. La proposta all’esame dell’aula della Camera potrebbe essere un passo in avanti, per evitare che altre persone come Mario attendano 16 mesi per una risposta, ma di fatto compie un passo indietro rispetto alla decisione della Consulta perché mantiene una discriminazione tra malati in base alla gravità della propria condizione e alla patologia (il requisito della presenza del sostegno vitale che dovrebbe essere eventuale e non necessario), introduce ulteriori limiti all’affermazione della volontà della persona, in termini di requisiti e in termini di tempi e di percorsi.

Nei confronti di Mario, per la completa inosservanza della sentenza costituzionale ha piena responsabilità il Governo, nelle persone del ministro della salute Roberto Speranza, della ministra della giustizia Marta Cartabia e del presidente del consiglio Mario Draghi. Sono responsabili dell’inosservanza della decisione del Tribunale di Ancona, che ordina di compiere tutte le verifiche indicate dalla sentenza di incostituzionalità della Consulta incluse le modalità, il direttore ASUR Area Vasta n. 2 Giovanni Guidi, la direttrice generale ASUR Nadia Storti, il presidente del comitato etico Paolo Pelaia. Tutti, per ogni singola competenza, violano norme di legge con le loro condotte omissive e ostruzionistiche che configurano, per il nostro ordinamento giuridico, reati. Essere rappresentante delle istituzioni non costituisce di certo un’esimente per il rispetto di una sentenza costituzionale e un ordine del giudice. Dopo 16 mesi, l’attesa è per Mario non solo ingiusta e ingiustificabile, ma è un vero e proprio strazio.