1. La stagione referendaria avviata l’estate scorsa affronterà, il 15 febbraio, un tornante decisivo: il giudizio sull’ammissibilità dei quesiti in tema di eutanasia, cannabis e giustizia da parte della Consulta. Se e quali voteremo, in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno, dipenderà dalle sue decisioni. Il rischio di uno slittamento al 2023, infatti, è ormai sventato: da qui alle urne referendarie, difficilmente interverrà un decreto di scioglimento anticipato delle Camere, firmato da un Capo dello Stato appena rieletto, e controfirmato da un Presidente del Consiglio inchiodato a Palazzo Chigi per proseguire l’azione di governo. Egualmente remota è l’ipotesi che, in un così breve segmento di tempo, siano approvate leggi last minute innovative di quelle oggetto dei referendum, tali da disinnescarli.

Quel tornante (e come ci si è arrivati) va allora illuminato a giorno. Perché conoscere serve a deliberare. Ma anche a misurare le decisioni che gli attori del procedimento referendario (promotori, Ufficio centrale di Cassazione, giudici costituzionali) hanno preso o assumeranno. La posta in gioco è alta: l’esercizio del diritto di voto e – sulla scia dei suoi esiti – l’avvio di una stagione di riforme su temi di grande rilievo sociale. Per il Paese, sarebbe un salutare remake.

2. L’atteso giudizio della Consulta ha, alle spalle, quello già espresso dall’Ufficio centrale per il referendum (UCR) presso la Cassazione. Fasi dello stesso procedimento, tra i due esiste una concatenazione logica e cronologica. Guardiamo allora al primo, colpevolmente trascurato dai commentatori. Eppure le relative ordinanze, depositate tra il 26 novembre e il 10 gennaio, hanno lasciato il segno, bocciando un referendum e denominando ufficialmente quelli promossi. Lette in filigrana, inoltre, mostrano dati di politica del diritto di sicuro interesse.

3. A conferma che la campagna referendaria popolare è una difficile corsa a ostacoli, è caduto il referendum sulla caccia: largamente inferiori al necessario le firme raccolte, anche a considerare quelle tardivamente depositate, benché i promotori si siano avvalsi di sottoscrizioni online. All’opposto, nel caso dei referendum eutanasia e cannabis capitanati dall’Associazione Coscioni, le operazioni di verifica e conteggio attestano che le firme digitali sono state decisive per superare la soglia delle 500.000 richieste.

Alla prova dei fatti, esce così smentito l’assunto per cui le sottoscrizioni online assicurerebbero il necessario consenso referendario, dopandolo artificialmente. La tecnologia non basta. A fare la differenza è la credibilità del comitato promotore, la sua azione politica pregressa, la sua capacità di fare rete, mobilitandola. Detto altrimenti, serve la politica. E quando il referendum è proiezione di una riconoscibile politica, il timore di una click-democracy è solo lo spettro denunciato da precipitosi acchiappafantasmi.

4. Per i sei referendum sulla giustizia, il controllo svolto dall’UCR è stato più agevole, perché promossi da nove consigli regionali (Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria, Veneto), tutti di centrodestra. Niente moduli vidimati da verificare, né firme autenticate con annessi certificati elettorali da controllare: solo delibere consiliari su identici quesiti, formalmente corrette, approvate a maggioranza assoluta. I promotori, dunque, sono esclusivamente le Regioni, nelle persone dei propri delegati designati dai rispettivi consigli. Non esiste, invece, alcun comitato promotore leghista-radicale, perché le centinaia di scatoloni stipati in via Bellerio e stracolmi di firme non sono mai stati portati in Cassazione. E poiché una sottoscrizione referendaria è tale solo se verificata e conteggiata dall’UCR, le complessive 4.275.000 firme (asseritamente) raccolte sono pari a 0. Giuridicamente, non esistono. Sottratte al necessario controllo di legalità, sono solo fittizie.

Usciti di scena i promotori originari, a interloquire con l’UCR sulla denominazione dei quesiti sono rimasti i soli delegati regionali. E così sarà per le prossime tappe: la costituzione di parte nel giudizio di ammissibilità spetterà solo a loro, come pure gli spazi televisivi nella campagna referendaria che verrà. Inoltre, in qualità di potere dello Stato, solo gli effettivi promotori sono legittimati a sollevare conflitti di attribuzione a Corte, in difesa dei referendum. Le ordinanze in esame svelano anche l’identità dei delegati designati, in numero di due per Regione. Uno svetta sugli altri per caratura politica: Roberto Calderoli, nominato delegato supplente dalla Basilicata per tutti i sei quesiti promossi. Nessun esponente radicale compare, invece, in elenco. Sta qui, in questa egemonia leghista, l’autentica ragione del suicidio (politicamente assistito) dell’iniziale comitato promotore.

La regia della campagna referendaria sarà dunque a trazione leghista: il suo tono («Chi sbaglia paga» è lo slogan referendario del Carroccio), il volerne fare «un banco di prova per il cosiddetto centrodestra» (come dichiarato da Salvini), la posizione ancillare dei radicali, rischiano di minarne la vocazione trasversale, ostacolando così l’ampliamento del fronte garantista favorevole ai quesiti.

5. Per legge la denominazione dei referendum spetta all’UCR, sentiti i promotori: il titolo così deciso sarà riprodotto sulle schede, identificando l’oggetto della domanda abrogativa. Si tratta di un dato tutt’altro che formale, dal quale dipende l’espressione di «un voto pienamente consapevole, non condizionato, né condizionabile» (ord. 15 dicembre 2021). La scelta si è rivelata particolarmente controversa per tre quesiti: legge Severino, legge elettorale del Csm, eutanasia.

Nel primo caso, è stata respinta la proposta dei delegati regionali di qualificare come sanzione l’incandidabilità conseguente al giudicato di condanna. L’UCR fa leva sulla lettera e sulla ratio della legge Severino, ma avrebbe anche potuto utilmente richiamare due recenti sentenze della Corte EDU (17 giugno 2021, Miniscalco c. Italia e Galan c. Italia) che ne hanno egualmente escluso la natura materialmente penale.

Nel secondo caso, il titolo proposto dalle Regioni («Riforma delle elezioni dei membri togati del Csm») è stato respinto come «fuorviante» perché riferito a un voto referendario «esclusivamente abrogativo», mentre una riforma «implica l’introduzione nell’ordinamento di nuovi contenuti normativi». L’UCR rivela così un approccio formalistico e arcaico all’istituto referendario, in realtà capace – abrogando in tutto o in parte una legge – di innovare comunque l’ordinamento. Non diversamente, anche il titolo proposto per il referendum eutanasia è stato respinto perché non rispettoso dei «limiti di un quesito di natura abrogativa» e invasivo di scelte rimesse al legislatore. Qui, per sovrappiù, l’UCR è inciampato in un fraintendimento circa il fine della richiesta referendaria: vediamo come e perché.

6. «Abrogazione parziale dell’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente)»: questo il titolo ufficiale del quesito che i promotori avrebbero voluto integrare con un sottotitolo esplicativo: «Disponibilità della propria vita mediante consenso libero, consapevole, informato». Proposta respinta perché contenente «l’indicazione di un bilanciamento fra diritti di pari dignità costituzionale»: il diritto alla vita e il diritto all’autodeterminazione. Indicazione che l’UCR giudica «non neutrale» né ricavabile dalla sent. n. 242/2019 sul caso Cappato.

In realtà, il quesito mira ad altro. Vuole rovesciare quanto previsto dal codice Rocco, sostituendo al dovere di vivere il diritto a disporre della propria vita, rimanendo presidiata la difesa della vita altrui, addirittura rafforzata dall’abrogazione del reato di omicidio del consenziente. Considerato che mai la giurisprudenza sull’art. 579 c.p. ha riconosciuto la presenza di un consenso validamente prestato, giococoforza il solo ambito in cui il principio di autodeterminazione potrà legittimamente operare è all’interno della legge n. 219 del 2017 in tema di consenso informato e testamento biologico. È la stessa procedura richiamata dalla Consulta nella citata sent. n. 242/2019. L’espressione «con il consenso di lui», che sopravvive nell’art. 579 c.p. a seguito dell’abrogazione referendaria, presta il giusto aggancio a tale interpretazione sistematica.

Il sottotitolo esplicativo proposto dal comitato promotore a questo serviva: rendere chiaro agli elettori quale principio giuridico il quesito intende introdurre. La decisione contraria dell’UCR è stata prontamente cavalcata dagli avversari del referendum (Giovanna Razzano, Il Sole-24 Ore, 17 gennaio 2022). Ciò nel malcelato auspicio che la denominazione del quesito irrompa nel giudizio sulla sua ammissibilità come criterio per contestarne la (presunta) ambiguità, emergente dallo scarto tra l’intentio dei promotori e i suoi effetti normativi. Vedremo. In ogni caso, i giudici costituzionali sanno bene di essere vincolati a quanto stabilito dall’UCR limitatamente alla riconosciuta conformità del referendum alla legge n. 352 del 1970. Non anche alla denominazione del quesito, in ragione della piena autonomia che contraddistingue i due giudizi e i rispettivi esiti: lo confermano i casi in cui la Consulta ha espresso dissenso rispetto al titolo attribuito dall’UCR al referendum (cfr. sentt. nn. 40/1997 e 37/2000).

7. Questo è quanto deciso collegialmente dall’UCR. Sono provvedimenti delicati, perciò affidati a un organo giurisdizionale imparziale. Sarebbe stato saggio, allora, evitare il potenziale conflitto d’interessi di uno dei suoi membri, già parlamentare e sottosegretario, curatore del volume Eutanasia. Le ragioni del no (Edizioni Cantagalli, 2021), vicepresidente di un centro studi intervenuto a Corte in opposizione alle scelte sul “fine vita” patrocinate dall’Associazione Coscioni (cfr. ord. n. 207/2018, sent. n. 242/2019). Tocca dirlo: «gravi ragioni di convenienza» (art. 51, comma 2, c.p.c.) avrebbero suggerito una volontaria astensione.

(1-Continua)