Il caos delle presidenziali
Le elezioni per il Presidente della Repubblica sono una pagina nera nella democrazia

La Costituzione italiana non prevede l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Tuttavia, l’art. 87 afferma solennemente che il presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale. Non si tratta, peraltro, di formule vacue, prive di sostanza. Se si guarda alla elencazione dei poteri che gli sono esplicitamente attribuiti dalla stessa disposizione, si deve rilevare che si tratta di una figura non solo simbolicamente al centro del sistema istituzionale: indice le elezioni, autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge del governo, ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio superiore della magistratura, etc. Altre disposizioni della Costituzione gli attribuiscono poteri per certi versi ancora più significativi: conferisce l’incarico di formare i governi, scioglie anticipatamente le Camere.
Ove si tenga a mente, congiuntamente, l’aspetto simbolico della carica e l’insieme dei poteri sostanziali che le sono attribuiti, diventa inevitabile concludere che, pur non essendo prevista l’elezione diretta, si tratta, comunque, di una figura che deve avere un saldo raccordo con la volontà popolare. Se così non fosse, sarebbe frustrato il senso della prima norma della Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Ciononostante, le condizioni. nelle quali sarà eletto il tredicesimo presidente della Repubblica, sono le più lontane, che si potessero immaginare, da quelle necessarie per salvaguardare quel necessario collegamento tra la sovranità popolare e la figura chiamata a rappresentare, nella forma e nella sostanza, l’unità nazionale. Cosa è successo? La volontà popolare è stata, negli ultimi anni, oggetto di una pervicace, costante estromissione da ogni rilevanza rispetto alle scelte che contano. Basta dire che, ormai, sono più di dieci anni che l’Italia è governata da esecutivi, che non sono espressione della volontà popolare, bensì di una pretesa saggezza, che la sostituisce.
Nel suo ultimo discorso di fine anno, Sergio Mattarella ha rivendicato di aver evitato al paese salti nel buio. Si riferiva, per quello che è stato possibile intendere, alla circostanza di non aver sciolto le Camere e indetto nuove elezioni. Ciò, nonostante le gravissime crisi politiche attraversate dal paese e il progressivo scollamento che si è andato creando tra elettori e partiti. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Nel momento, in cui oltre il 50% degli elettori non va a votare per le elezioni amministrative, non si può non registrare che si è in presenza di una sconfitta gravissima della democrazia. D’altra parte, perché scomodarsi e andare a votare se il risultato delle urne non conta nulla, in quanto prevarranno i giochi di palazzo? Ma possono le elezioni essere evitate perché sarebbero un “salto nel buio”? Le elezioni non sono un salto nel buio solo nei regimi dittatoriali. Solo in quei regimi l’esito è scontato. Nelle democrazie l’esito non è mai scontato e, perciò, per definizione portano a un risultato non governabile dall’alto, come tale “libero”.
Se alla dialettica politica si toglie la verifica elettorale, tanto più necessaria nei momenti di crisi, la dinamica non è più quella di una competizione democratica per la conquista del consenso, ma mero scontro di potere tra opposte cordate.
Oggi, il risultato è che il nuovo presidente della Repubblica sarà eletto da un Parlamento, che, largamente, non è più rappresentativo del paese. Non lo è per il diverso peso delle forze politiche, ove si confronti il rispettivo numero dei parlamentari ed il diverso seguito che hanno nel paese. Non lo è perché dopo la riduzione dei parlamentari, prezzo anche questo pagato alla scelta di non indire le elezioni, il futuro Parlamento sarà ancora più profondamente diverso da quello, in via di scadenza, che sta per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Si dice che il problema deriverebbe non dal mancato stimolo della dialettica democratica, ma dalla debolezza intrinseca dei partiti. Ma si trascura un dato: si è fatto di tutto per impedire che i partiti svolgessero il loro ruolo. Un esempio. La crisi della Giustizia, resa manifesta a tutti dallo scandalo Palamara, dalle pronunce della Giustizia amministrativa sulla nomina del Procuratore della Repubblica di Roma, nonché del Primo Presidente e del Presidente aggiunto della Corte di Cassazione, e da altri piccoli e grandi episodi di mala giustizia, è stata mantenuta sotto il tappeto.
Un tema sul quale le forze politiche avrebbero potuto e dovuto confrontarsi vivacemente e coinvolgere l’opinione pubblica, e che, di conseguenza, avrebbe potuto dare linfa alla loro ragione di essere, è stato sterilizzato con una omissione così sfrontata, che ha il sapore di una violenza verso quel popolo, cui, a tenore di Costituzione, spetterebbe la sovranità. È così che si spiega un aspetto di questa elezione del nuovo presidente della Repubblica, che qualificare scandaloso è riduttivo: uno dei criteri decisivi per la scelta è legato alla valutazione di quale incidenza tale scelta possa avere su di una prosecuzione della legislatura per un tempo sufficiente a far maturare la pensione dei parlamentari. È facile immaginare il discredito, per l’istituzione parlamentare, determinato da questo dato, che tutti i commentatori politici danno per scontato parlandone apertamente come cosa naturale. E che, inevitabilmente, non potrà non riflettersi sulla persona del capo dello Stato, che di questo Parlamento e di queste valutazioni sarà espressione. L’auspicio, allora, al di là delle vuote formule sulla autorevolezza e l’imparzialità, è che la scelta cada su di una persona, la quale abbia bene a mente che l’art. 1 della Costituzione italiana attribuisce la sovranità al popolo.
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