Il 15 giugno 1978 Giovanni Leone, presidente della Repubblica massacrato da mesi da una campagna di stampa che lo accusava ingiustamente di essere il misterioso leader politico che aveva intascato una cospicua tangente dall’americana Lockheed, decise di difendersi con un’intervista all’agenzia Ansa. Ne inviò copia al presidente del consiglio Giulio Andreotti, al segretario della Dc, il suo stesso partito, Benigno Zaccagnini e, per conoscenza, al segretario del Pci, in quel momento parte della maggioranza di unità nazionale, Enrico Berlinguer. Il verdetto di tutti fu unanime: quell’intervista non doveva uscire. Infatti non vide mai la luce. Non bastava. Era ora che Leone traesse i partiti della maggioranza fuori dall’imbarazzo andandosene. Lo fece. Si dimise con un messaggio in tv nel quale ribadiva la propria innocenza la sera stessa. Il semestre bianco sarebbe iniziato 15 giorni dopo. Il 29 giugno, invece, i Grandi Elettori si ritrovarono in una Montecitorio assediata e in assetto da guerra per eleggere il settimo presidente della Repubblica.

Con le dimissioni di Leone, il terremoto che squassava l’intera Italia era arrivato a travolgere la massima istituzione della Repubblica. Poche settimane prima, il 9 maggio, il cadavere di Aldo Moro era stato fatto ritrovare dalle Brigate rosse in via Caetani, nel centro di Roma, vicino alle sedi della Dc e del pci, dopo i 55 giorni più lunghi e tragici della storia dell’Italia del dopoguerra. L’inflazione martellava, l’economia crollava, la stabilità politica, basata sul fragile accordo fra Dc e Pci, era appesa a un filo sottile. Sino a due mesi prima il candidato naturale per la presidenza era stato proprio Moro, il regista dell’unità nazionale. Le Br avevano sgombrato il campo crivellando la sua scorta e poi il presidente della Dc sequestrato. Il candidato numero uno socialista, l’ex segretario Francesco De Martino, era stato anche lui azzoppato da un sequestro, quello del figlio, nel 1977. Il riscatto fu pagato e quel pagamento mise De Martino fuori gioco. In campo c’era un nuovo giocatore, il giovane segretario del Psi Bettino Craxi, 43 anni, che aveva tutte le intenzioni di farsi valere e dimostrare con le cattive che la musica nei rapporti col Psi era cambiata.

La partita iniziò, senza esclusione di colpi, già nei 10 giorni precedenti lo sparo d’inizio. La Dc e il Pci puntavano su Zaccagnini, già vicinissimo a Moro. L’ “onesto Zac”, come comunemente veniva definito all’epoca, era pronto. Craxi lo abbattè subito, spalleggiato dall’area moderata e più anticomunista della Dc, guidata da Flaminio Piccoli. Il socialista Giacomo Mancini, bruciando i tempi, candidò Sandro Pertini, ex presidente della Camera. Craxi fece finta di appoggiare la candidatura, in realtà mirando a bruciarla. L’handicap di Pertini, ufficialmente, era l’età, 82 anni, meno di quanti ne contano oggi candidati eccellenti come Silvio Berlusconi e Giuliano Amato. “Va bene, il presidente deve avere un grande passato ma è bene che abbia anche un po’ di futuro”, ironizzò il deputato Dc Zucconi. L’anagrafe, in realtà, era il problema minore. Sandro Pertini, ligure sanguigno e fumantino, ex detenuto ed ex confinato durante il fascismo, tra i massimi dirigenti della Resistenza, non presentava nessuna delle doti diplomatiche che si richiedevano allora a un presidente. Aveva innescato di persona la più violenta rissa nella storia del Parlamento, nel 1953, il giorno dell’approvazione della legge elettorale detta “legge truffa”.

Si era piazzato di fronte all’appena nominato presidente del Senato Meuccio Ruini, destinato a restare in carica solo per quel giorno fatale, e aveva scandito a pieni polmoni: “Lei è un porco”. Nelle ore seguenti parecchi senatori si sarebbero ritrovati con la testa spaccata, incluso il presunto suino. Sette anni dopo era stato di nuovo l’incendiario comizio di Pertini a scatenare la rivolta di Genova contro il governo Tambroni, sostenuto dal Msi. Inoltre era un socialista poco favorevole al nuovo corso craxiano: e durante i 55 giorni del sequestro Moro si era schierato decisamente contro la trattativa e dunque contro il nuovo segretario. Finì nel bussolotto tritacarne anche il repubblicano Ugo La Malfa, padre della patria e gradito al Pci. Craxi lo fulminò prima ancora che si aprissero i battenti: “Non può essere il punto di equilibrio”. La Malfa, uomo dell’unità nazionale, non poteva andare, ma su un punto Craxi era tassativo: il nuovo presidente non doveva avere in tasca la tessera della Dc.

Cominciò con i candidati di bandiera, essendo chiaro che nessuno avrebbe potuto farcela nella prime tre votazioni, quindi la Dc si barricò dietro l’astensione. Poi, il 2 luglio, Craxi candidò ufficialmente Pertini. L’anziano socialista poteva avere una certa età ma non era uno sciocco né un ingenuo. Colse al volo la manovra per sacrificarlo e rispose con una lettera rovente, nella quale si diceva pronto ad accettare la candidatura ma solo se appoggiata da tutta la maggioranza e non solo dalla sinistra. Una mossa che sembrava averlo messo definitivamente fuori gioco. Craxi, a quel punto, giocò la carta di Antonio Giolitti, l’ex comunista che aveva abbandonato il Pci dopo l’invasione dell’Ungheria, nel 1956. Era una mossa calcolata.

Il leader del Psi sapeva che il Pci avrebbe affossato Giolitti e intendeva tirare fuori solo a quel punto il vero candidato, Giuliano Vassalli, principe del foro come era stato, prima di lui, Leone, ma, a differenza di Leone e come Pertini, dirigente importante della Resistenza, torturato in via Tasso. Il Pci bocciò anche lui: troppo critico con Berlinguer nei giorni del sequestro Moro. Lo stallo precipitava così verso il vicolo cieco. Le votazioni si susseguivano a vuoto e non era certo la prima volta. Ma con il cadavere di Moro ancora fresco e il Paese travolto dal terrorismo e dall’inflazione le cose erano cambiate. I partiti capivano che la delegittimazione li avrebbe travolti. La notte tra il 6 e il 7 luglio si svolse un del tutto inusuale vertice tra i segretari di maggioranza che si ridusse a una sagra dei veti incrociati. Così riemerse il nome del candidato già trombato, Sandro Pertini. Aveva dato lui stesso la partita per persa. Il 7 luglio aveva già in tasca il biglietto per raggiungere, dopo tre giorni, la moglie in un Paese vicino Mentone, per le vacanze.

La Malfa accettò di sostenerlo ma solo con garanzia che nella postazione chiave di segretario generale, al Quirinale, sarebbe andato un uomo di sua completa fiducia, Antonio Maccanico. La Dc si rassegnò. Craxi fece buon viso a cattivo gioco: stava per essere eletto un socialista, ma il più anticraxiano di tutti. Giampaolo Pansa, scarcastico, lo ribattezzò dopo la battaglia “Pirrino Craxi”. Sandro Pertini fu eletto l’8 luglio con una maggioranza schiacciante, 832 voti su 995. Lo bocciarono solo Msi e monarchici ma il leader del Msi Giorgio Almirante ci tenne a manifestare comunque il suo rispetto. Pertini fu il primo presidente a non traslocare al Quirinale: la moglie, Carla Voltolina, non volle neppure sentirne parlare. Rimase nel suo appartamento a Fontana di Trevi, spostandosi la mattina in ufficio, sul Colle. La scelta si dimostrò azzeccata. Proprio in virtù delle sue caratteristiche più sospette Pertini, che non la mandava a dire, si esponeva senza peli sulla lingua, adorava i media e si prestava volentieri al loro gioco, restituì lustro all’istituzione ormai opaca.