Lo chiamavano re Giorgio. Nessuno più di lui, Giorgio Napolitano, primo e unico presidente della Repubblica ex comunista, aveva inteso il mandato presidenziale come una sorta di monarchia costituzionale. Eletto nel 2006 alla quarta votazione, dunque la prima a maggioranza semplice, con i voti dell’Unione, la vasta coalizione di centrosinistra, e la scheda bianca del centrodestra, Napolitano aveva dichiarato una guerra, sostituito imperiosamente un governo, orientato l’intera vita politica del Paese. Nessuno aveva saputo dirgli di no. I Ds trasformatisi nel corso de mandato di re Giorgio in Pd obbedivano puntualmente.

Persino Fini, mentre si giocava l’intero futuro politico con una mozione di sfiducia contro l’alleato di sempre Berlusconi, accettò di posporre di un mese il voto di fiducia su richiesta del presidente-monarca. Una scelta suicida che diede a Berlusconi, che sul momento sarebbe stato in minoranza, il tempo necessario per acquistare consensi e capovolger l’esito della conta. Napolitano, tuttavia, non mirava a una conferma del mandato. Dopo aver condizionato e quasi orchestrato le alleanze del Pd in vista delle elezioni politiche del 24-25 febbraio 2013 era pronto a passare la mano alla scadenza del suo settennato, in aprile. L’esito delle elezioni politiche complicò tutto. La buona affermazione del M5S aveva rotto il bipolarismo. Nessuno dei tre poli in campo aveva i numeri per governare, né Italia bene comune, la coalizione di centrosinistra che aveva candidato alla premiership il segretario del Pd Bersani e conquistato la maggioranza relativa, né il centrodestra ancora guidato da Berlusconi, né la folta pattuglia dei nuovi arrivati di Beppe Grillo.

Bersani rifiutava l’ipotesi di una maggioranza di unità nazionale con la destra, sponsorizzata invece dal presidente uscente della Repubblica. Mirava a un’alleanza con i 5S, che però non erano disponibili e anzi, nell’incontro tra Grillo e Bersani in diretta streaming lo umiliarono pubblicamente. Lo stallo era destinato inevitabilmente a riflettersi sulla corsa al Colle. La guerra nel Pd era un ulteriore elemento che rendeva a massimo rischio l’elezione del nuovo presidente. Nelle primarie per indicare il candidato premier della coalizione svoltesi in due turni, il 25 novembre 2012 con ballottaggio il 2 dicembre, il rampante sindaco di Firenze Matteo Renzi aveva sfidato Bersani. Era stato sconfitto con il 39,1% dei voti contro il 60,9% del segretario ma la mancata vittoria alle politiche aveva di fatto riaperto la sfida e reso più che traballante la posizione di Bersani. Anche la battaglia nel Pd si sarebbe dunque combattuta nell’arena delle elezioni presidenziali. Bersani preparò una rosa di cinque nomi da sottoporre alla destra. Spiccava la mancanza di Romano Prodi. Per Berlusconi sarebbe stato inaccettabile e il leader del Pd mirava a una soluzione unitaria. Si mise in moto l’eterno ciambellano Gianni Letta. Organizzò una faccia a faccia tra il signore d’Arcore e Marini. Berlusconi gli diede il via libera: “Di te mi fido”.

Marini, ex segretario storico della Cisl, ex ministro, ex segretario del Ppi, nell’ultima legislatura presidente del Senato, era uno dei principali padri del Pd. Era stato lui, nel 1995, dalla postazione di responsabile dell’Organizzazione, a determinare la sconfitta di Rocco Buttiglione che proponeva l’alleanza con Berlusconi: un passaggio determinante, senza il quale l’intera vicenda italiana alla fine del secolo scorso avrebbe preso tutt’altro percorso. Eppure la scelta di candidarlo a capo dello Stato provocò una rivolta tanto tra i parlamentari quanto nella base. L’accusa era quella di “essere stato scelto da Berlusconi”. Il sospetto, probabilmente infondato, era che l’accordo con la destra sul Colle preludesse a quello sul governo. Renzi soffiava sul fuoco con l’intento di far saltare gli equilibri nel partito. I prodiani pure, per rimettere in gioco il Professore. L’assemblea dei Grandi Elettori approvò comunque la candidatura ma i segnali erano minacciosi. La componente Sel abbandonò l’assemblea. I renziani annunciarono il voto per Sergio Chiamparino, sindaco di Torino. Marini non raggiunse il quorum alla prima votazione. Si fermò a quota 521. Una parte dei voti del Pd era confluita sul candidato del M5S e di Sel, Stefano Rodotà, un’altra quota era andata a Chiamparino.

Alla quarta votazione, con la maggioranza semplice, i voti presi da Marini sarebbero stati più che sufficienti. Erano poco meno di quelli che aveva ottenuto 7 anni prima Napolitano, più di quelli con i quali erano stati eletti in passato Einaudi, Segni e Leone. Sembrava dunque naturale insistere sino a quella votazione e questo intendeva fare Marini. Nella speranza di salvare l’unità del Pd Bersani decise invece di mollarlo. La sera stessa, 18 aprile, Marini fu costretto a ritirarsi. La mattina dopo l’assembla degli grandi elettori accettò per acclamazione la candidatura di Prodi, che in quel momento si trovava nel Mali. Prodi fu messo in campo alla quarta votazione, nel pomeriggio del 19 aprile, dopo aver fatto passare la terza con l’astensione. Non andò oltre i 395 voti, molti meno di quanti ne aveva raccolti Marini. Mancavano ufficialmente all’appello 101 elettori del Pd: non sarebbero bastati comunque. In realtà erano probabilmente di più, intorno ai 120 perché molti nel piccolo partito di Mario Monti, Scelta civica, avevano votato per il professore. Il terremoto travolse non solo Prodi. La presidente del Pd Rosi Bindi e il segretario Bersani si dimisero. La sola alternativa al caos era convincere il re a mantenere ancora per un po’ la corona. Ci provò per primo Gianni Letta, con il pieno consenso del dimissionario Bersani.

Bussò alle porte del Quirinale tre volte in quel 19 aprile di caos e per tre volte re Giorgio rifiutò il secondo mandato. Il giorno dopo fu un corteo. Lo implorò Bersani, scortato da Enrico Letta. Lo pregò Berlusconi, con zio Gianni al fianco. Insistette Mario Monti, ancora premier. Si presentò Vasco Errani, presidente della Conferenza Stato-Regioni, a nome di tutti i governatori. Napolitano non poté negare “l’assunzione di responsabilità verso la nazione”. Con una condizione però: chi lo pregava di salvare la situazione s’impegnava anche a seguire le sue sovrane direttive. Subito un governo “del dialogo” con Berlusconi e a guidarlo, invece di Giuliano Amato come da indicazione del Pd, Enrico Letta. Nessuno osò opporre la pur minima resistenza.

(Fine)