Votavano sul ponte del Titanic ma non lo sapevano. I segnali dell’imminente naufragio della Prima Repubblica si moltiplicavano ma i partiti, ingessati e inamovibili, non riuscirono a coglierli: l’ascesa che pareva inarrestabile della Lega, le picconate sempre più micidiali del presidente Cossiga e le sue dimissioni anticipate, sia pur lievemente, la vittoria a sorpresa di Mario Segni nel referendum sulla preferenza unica, la batosta elettorale subìta dai partiti di governo nelle elezioni politiche, il referendum contro il proporzionale che era dietro l’angolo, l’iceberg-killer di tangentopoli che era già entrato in attrito anche se nessuno credeva ancora che avrebbe non solo danneggiato ma affondato la nave della Prima Repubblica.

Cominciò con una sagra delle cineserie democristiane. Invitati a cena dall’ancora presidente Cossiga i due papabili della Dc, il premier Andreotti e il segretario del partito Forlani, si lanciarono in un minuetto senza precedenti: “Tocca a te”, “Ma figurati, l’uomo adatto sei tu”. Spazientito Cossiga li lasciò soli a scambiarsi sdolcinate e ipocrite cortesie. Il Picconatore, che voleva Forlani come suo successore, insistette con le cenette sul Colle, mettendo intorno al tavolo il segretario della Dc e quello del Psi Bettino Craxi, anche lui forlaniano perché convinto che con Forlani al Colle a palazzo Chigi sarebbe rientrato lui. Con le due teste di serie impegnate nel giochino del “Passi prima Lei”, “Ma si figuri” la Dc se la cavò nella prima votazione, il 13 maggio 1992 e poi nelle due successive con il classico candidato di bandiera, il capo dei senatori Giorgio Di Giuseppe.

Il futuro presidente, Oscar Luigi Scalfaro, “lanciato” da Marco Pannella in virtù delle sue fermissime prese di posizione contro il piccone di Cossiga, prese 6 voti. Nessuno lo considerava in corsa. Per i socialisti poteva essere una seconda scelta dopo Forlani. Il Pds proprio non lo voleva. Cattolico sì, ma con misura. Scalfaro se lo ricordavano tutti per la piazzata fatta in pubblico a una signora troppo scollata, entrata poi nella leggenda come schiaffone in realtà mai affibbiato. “In Italia un’importante autorità religiosa c’è già. Non ne serve un’altra”, ironizzava il giovane Fabio Mussi solo al sentirlo nominare. Su Scalfaro, poi, pesava la Fatwah di Botteghe Oscure per aver scippato, poche settimane prima, a Giorgio Napolitano il seggio di presidente della Camera. Un gioco quirinalizio anche quello: per insediare Napolitano, Craxi chiedeva l’impegno del Pds a votare Forlani nelle imminenti presidenziali. Occhetto rifiutò lo scambio. Craxi e la Dc elessero Scalfaro, che a Bettino del resto piaceva essendo stato il suo ministro degli Interni.

Dopo la quarta votazione, andata anch’essa a vuoto con l’astensione della Dc, Forlani si recò di persona nello studio di Andreotti per offrirgli di nuovo la candidatura e stavolta l’astutissimo cedette alle insistenze, si presume di buon anzi ottimo grado. La sua candidatura fu meteorica. Poche ore dopo arrivò la notizia che i dorotei di Gava non la accettavano e i socialisti neppure. Volevano Forlani e Forlani fu. Candidato ufficiale della Dc. Trombato con 39 voti mancanti alla quinta votazione, 29 alla sesta. A fucilarlo fu un eterogeneo plotone di franchi tiratori: socialisti anticraxiani, un po’ di sinistra Dc, molti andreottiani. Restava in campo, in via rigorosamente ufficiosa, Andreotti. I suoi colonnelli erano attivissimi, Cirino Pomicino macinava incontri. Ma il blocco composto dai dorotei e da Craxi era inamovibile. Per una settimana fu il caos. Candidature in libertà affossate una dopo l’altra, come quella del socialista Vassalli proposto da Craxi, accettato da Forlani, affondato dai cecchini democristiani o di Leo Valiani. Scalfaro, il futuro presidente, aveva raggiunto il picco di 25 voti ma svettava come presidente della Camera fornendo prove di carattere una via l’altra. S’inventò il “catafalco”, l’urna chiusa al centro dell’aula che rendeva impossibile sbirciare chi andava in bianco. Bastonò parlamentari riottosi con la dovuta dose d’ironia.

Alcuni parlamentari che strillavano “Imbecille” rivolti a un onorevole collega si sentirono invitare a non pronunciare il proprio cognome a voce tanto alto. Un ribelle che rifiutava di sedersi sbandierando il regolamento che non citava detto obbligo fu abbattuto con una battuta fulminante: “In effetti non c’è neppure una norma che obblighi a ragionare. È facoltativo”. Andreotti puntava proprio sul vicolo cieco. Sarebbe uscito allo scoperto solo quando fosse stato certo dei numeri. Bossi gli aveva promesso l’appoggio della Lega ma il divo Giulio, che non era un pollastro, subodorava il trappolone. Il 23 maggio il numero 2 del Psi era nello studio del premier, invitato dal divo per discutere la richiesta rivolta a Craxi di votarlo. La notizia della strage di Capaci, della bomba, dell’uccisione di Giovanni Falcone, della moglie e della scorta, rimbombò nel bel mezzo del colloquio. Chiuse i giochi. Impossibile tergiversare oltre: il Paese non lo avrebbe accettato. Impossibile anche uscire dalla palude con Andreotti presidente: neppure quello sarebbe stato accettabile.

Restava solo una soluzione, quella istituzionale. Dovevano essere eletti o il presidente del Senato Giovanni Spadolini o quello della Camera Oscar Scalfaro. Spadolini era convinto di farcela. Ai funerali di Falcone arrivò con il discorso da presidente già scritto. Nel corso delle esequie gli fu data la poco lieta novella: presidente della Repubblica sarebbe stato Oscar Scalfaro. I dubbi del Pds, dovuti soprattutto all’aura di integralismo che circondava il papabile, furono dissolti in un colloquio diretto tra Occhetto e lo stesso Scalfaro, che anticipò ogni eventuale appunto: “Io sono degasperiano. La Chiesa è la Chiesa, lo Stato è lo Stato”. Il 25 maggio fu eletto con 672 voti. Lo bocciarono solo Lega, Msi e Rifondazione comunista. Doveva essere il ritorno alla normalità dopo il pirotecnico mandato di Cossiga, almeno nella sua ultima e dinamitarda fase: un presidente discreto, poco invadente, opaco. Le circostanze e il carattere dell’uomo lo resero, con Giorgio Napolitano, il presidente più interventista nella storia della Repubblica.

È un luogo comune dire che Scalfaro “fu eletto dalla mafia”. Non è solo una boutade. Senza la bomba di Capaci probabilmente quel democristiano di seconda fila non sarebbe mai asceso al Colle. Ma ancora prima della strage l’elezione di Scalfaro fu il prodotto dello stallo nel quale si erano infilati partiti lontanissimi dall’aver capito la gravità della situazione nella quale si trovavano. Avessero saputo cogliere i segnali evidenti che arrivavano ormai da ogni parte avrebbero eletto subito un loro garante, quale era Arnaldo Forlani e quale invece non era e non fu Oscar Luigi Scalfaro.

(Fine terza puntata- continua)