Ci sono dei momenti nella storia repubblicana nei quali viene convocato d’urgenza il rappresentante di quello che De Gasperi chiamava il “quarto partito”. Privo dei voti, allora accaparrati dai tre grandi partiti di massa, il quarto partito nel dopoguerra non era presente nelle schede e controllava però le risorse economiche. L’impresa, il capitale, la proprietà, che sono i componenti del quarto partito, non disponevano in Italia di un rappresentante politico in grado di gestire con coerenza le politiche richieste per la crescita. Il tramonto delle vecchie élite liberali, peraltro nostalgiche dei valori etici del Risorgimento e poco attrezzate nel ricoprire con una legislazione efficace le nuove funzioni produttive della modernità, privava le forze della ricchezza dei referenti politici. E quindi le ragioni della accumulazione capitalistica erano incerte e vulnerabili parevano anche le radici del profitto.

Toccò a De Gasperi, nella ostilità del cattolicesimo sociale molto forte nel suo stesso partito con Dossetti, Gronchi e Fanfani, appellarsi a una tipica figura di emergenza che governava la moneta da via Nazionale. Affidò a Luigi Einaudi la gestione delle risorse che l’America aveva concesso all’Italia per la ricostruzione dell’apparato materiale e industriale. Lo fece proprio trattandolo come il leader riconosciuto dal quarto partito senza di cui la modernizzazione del sistema produttivo sarebbe stata impossibile. Con un irrituale cumulo di cariche, il governatore della Banca d’Italia diventava anche titolare del dicastero del bilancio. Una sorta di commissario dell’economia. In un’Italia attraversata da duri scontri di piazza, con prefetture occupate e venti caldi di insurrezione, la decisione sul volto dell’autentico sovrano in campo economico non era molto diversa dalla constatazione circa i limiti obiettivi, per l’azione dei partiti, collegati alla forma dell’ordine politico internazionale disegnato dopo Yalta.

Non c’era però da ratificare solo un quadro geopolitico scaturito dalla divisione del mondo in distinte aree di influenza, esisteva anche un ordine economico legato alla struttura capitalistica che andava assunto come un dato ineludibile per le politiche. Nel 1946 l’adesione dell’Italia ai vincoli di Bretton Woods del 1944 (liberazione degli scambi e poi a seguire Fondo monetario internazionale, Banca mondiale) non era meno cogente dell’accettazione realistica delle condizioni imposte dagli accordi di Yalta. Quando Togliatti nel 1947 delineò la strategia della “razionalizzazione produttiva” si mostrò anche lui consapevole dell’esistenza di questo vincolo economico-materiale che sollecitava ogni politica di governo (anche di quello che con l’adozione degasperiana della linea Einaudi lo cancellava dalla maggioranza) a soddisfare le ineludibili esigenze della accumulazione (o “restaurazione”) capitalistica. I conflitti distributivi, le occupazioni delle terre, l’attenzione ai problemi dei ceti medi e la rappresentazione della microfisica delle rivendicazioni popolari erano visti dalle sinistre come fenomeni di una forte mobilitazione politica da conciliare, tra inevitabili contraddizioni, con le compatibilità della crescita (“razionalizzazione dell’industria”, “risanamento dell’economia”), con la condivisione di un qualche interesse generale.

La figura di Einaudi indica la prima forma di influenza riconosciuta al potere privato appannaggio di quel “quarto partito” che è scarso nei voti ma si conferma cruciale per la gestione di un ciclo liberista nel governo dell’economia. Oltre ai partiti di massa che competono, mobilitano, si organizzano esiste un qualcosa di operante nelle roccaforti dell’élite che in fasi delicate garantisce la suprema ragione dell’accumulazione. L’inquilino di via Nazionale è apparso in varie occasioni come il titolare, nelle fasi di crisi di sistema, della sovranità economica. Quando la strategia della “democrazia progressiva” (ma anche la programmazione perseguita dal centro sinistra) ha sottovalutato il peso del vincolo esterno, ossia la funzione direttiva del capitalismo americano nella fornitura di risorse, e quindi nella costruzione di fitte reti di interdipendenza, è andata incontro a gravi ripiegamenti.

Nessuno più di Einaudi, anche lui come De Nicola un monarchico che vedeva nella corona da assegnare a Maria José un prezioso fattore di unità e di equilibrio ed è per paradosso diventato il primo presidente della Repubblica, ha incarnato il volto di un motore di riserva che, oltre una narrazione ufficiale del costituzionalismo provvisto di un catalogo di diritti sociali estraneo ai paradigmi liberali, si mette in movimento nelle situazioni di emergenza. Sebbene sia espressione di un filone culturale e politico assai minoritario, questo potere neutro ma interveniente nei processi incide nella risoluzione dei nodi strutturali dell’economia e definisce i contorni di più lungo periodo del meccanismo produttivo. A questo liberale che vedeva con il fumo negli occhi la costituente eletta con una “votazione plebiscitaria immediata”, e quindi veicolo di sovversione perché, succube “della demagogia più sbracata”, si presta “a rimettere tutto in discussione dall’a alla z”, si deve la delimitazione dei pilastri della costituzione economica della Repubblica.

Il suo modello giuridico-istituzionale non sfondò nel dopoguerra: era contro il proporzionale e per i piccoli collegi uninominali (“la proporzionale favorisce il dominio dei comitati elettorali e toglie all’elettore ogni effettiva libertà di scelta dei propri rappresentanti”), reputava una “tirannia spaventevole” il governo parlamentare-assembleare, considerava uno “sciagurato errore” la Corte costituzionale, combatteva il centralismo prefettizio o “sovrastruttura napoleonica”. E soprattutto Einaudi non apprezzava i partiti-macchina che dominavano con leader venerati dalla moltitudine («la macchina dei partiti tiene salda in pugno la massa degli elettori fedeli la quale non desidera formarsi una opinione propria ma accetta bell’e fatta l’opinione dei gruppi e dei loro capi»).

La sua simpatia andava al partito debole capace di raccoglie il voto di una opinione che non si lasciava inquadrare entro strutture organizzative («Il pendolo elettorale oscilla esclusivamente per merito della gente indipendente la quale regola la sua opinione non sulle parole, ma sui fatti. Essa sola consente alla pubblica opinione di farsi valere»). Perse sicuramente lo scontro sulla forma della Repubblica (“con la proporzionale non si governa”) ma Einaudi incise dal governo e poi dal Quirinale (il presunto presidente notaio scelse Pella, al di fuori e contro i partiti e gli assegnò un esplicito mandato di politica economica) sulla effettiva costituzione materiale-economica. Nemico della “finanza in disordine” per via di richieste insostenibili come la terra ai contadini, i sussidi a poggia, le pensioni senza contributi, le nazionalizzazioni di banche, il controllo operaio delle fabbriche e dei profitti, Einaudi fu “lo specialista più politico” che, al di là del credo ideologico dei partiti di massa, seppe gestire la transizione dal regime autarchico-protezionistico del fascismo alla economia di mercato integrata su scala occidentale con i paradigmi di Bretton Woods sottoscritti dall’Italia già nel 1946.

La lezione di Einaudi è stata quella di tenere aperta una sensibilità liberale-produttiva contro i rischi involutivi del sovranismo («Il concetto dello stato sovrano, dello stato che, entro i suoi limiti territoriali, può fare leggi, senza badare a quel che accade fuor di quei limiti, è oggi anacronistico ed è falso») e del populismo etnocentrico chiuso verso i processi di mondializzazione («In un mondo percorso da ferrovie, da rapide navi, da aeroplani, nel quale le distanze sono state annullate da telegrafi e telefoni con o senza fili, gli stati, che un giorno parevano grandi, come l’Italia, la Francia, la Germania, l’Inghilterra, a tacer di quelli minori, sono diventati piccoli come nel quattrocento eransi rimpiccioliti i liberi comuni medievali»). Per questo bersaglio fisso e sempre ritornante non fu un teorico tutto fuori del tempo, un politico minoritario estraneo ai miti fondativi della Repubblica e quindi ininfluente.

Nemico delle seduzioni “per le ollapotride di programmi ispirati alle più opposte ideologie” (i miti di giustizia e libertà) rigettava l’appellativo di socialista liberale (e non lo fece per una riluttanza verso i contenuti sociali: («Io dico che la politica del liberalismo non è affatto contraria a tutti quelli che si usano chiamare i problemi della legislazione del lavoro»). A muoverlo era soprattutto una esigenza di rifiuto dell’eclettismo in teoria. Il suo credo liberale non assumeva, come si crede, quale invariante un volto liberista. Riecheggiando antiche dispute con Croce, egli precisava che «non esiste, è vero, legame diretto fra liberalismo e struttura economica». La sua prospettiva intendeva connettere pubblico e privato («Come siamo contrari allo Stato leviatano, siamo altresì contrari ai Leviathan privati») e ciò richiedeva un governo autorevole e saldamente presente nella vita economica a fianco di un vitale spettro di attori del mercato in concorrenza. «I liberali non sono, non debbono essere opposti sempre a qualsiasi intervento dello Stato nelle cose economiche, perché se così fosse, vorrebbe dire che i liberali sono semplicemente degli anarchici».

Il campione del liberismo non respingeva affatto i capisaldi di una economia mista. «Nelle società moderne complesse, a base di complicatissima divisione del lavoro e di interdipendenza necessaria fra impresa ed impresa, fra regione e regione, fra stato e stato, è vano immaginare che la libera iniziativa degli imprenditori singoli possa manifestarsi e crescere senza danno altrui ove nel tempo stesso non sorga e non cresca una altrettanta intensa attività pubblica. Incremento di ricchezza privata presuppone incremento almeno uguale della ricchezza pubblica». Alle superiori esigenze della crescita egli connetteva le politiche sociali e ridistributive necessarie per riconoscere la dignità della persona. Come liberale non condivideva il cedimento degli industriali, del clero, di settori della Dc ai qualunquisti.

Contro i populisti affermava che le semplificazioni di Giannini “repugnano profondamente” una cultura liberale. E in tal senso sbagliato era per lui ogni dialogo: “il qualunquismo va rigettato” perché incompatibile con l’integrazione europea assunta con coerenza come un destino. Il sovranismo populista andava respinto con forza in quanto «per quella via non solo non si giungerà mai agli Stati Uniti di Europa, che pare sia la meta comune, ma rovineremo sino in fondo all’abisso dove si prepara la distruzione dell’Europa». Quando queste minacce populiste alla crescita e alla integrazione europea prendono quota si attiva sempre in Italia il potere di riserva che difende “la razionalizzazione produttiva”. Einaudi è stato solo il primo interprete, Ciampi e Draghi seguono lo stesso spartito.