Scorrere i titoli dei giornali, scritti e in video, in questi giorni è un esercizio da consigliare a chi è un po’ ansioso. Perché rassicurante. Cosa c’è, infatti, di più rassicurante del rito, cioè del riprodursi, uguale a se stessa, di una procedura, di una sequenza di parole, di sempiterni ragionamenti intorno al tema, “ritornante” ad ogni settennio, dell’elezione del Capo dello Stato? È come se uno spicchio di eternità ci strizzasse l’occhio per dirci: “dai, ragazzi, in fondo è sempre stato e sempre sarà, e voi state dentro questo tempo lunghissimo”. Leggo a caso: “Mattarella esclude il bis”.

Ma va! Ma se il Presidente lo va dicendo in prosa e in musica almeno dal 2 febbraio di quest’anno, quando, celebrando i 130 anni dalla nascita di Segni dichiarava in modo inequivocabile «la convinzione che fosse opportuno introdurre in Costituzione il principio della non immediata rieleggibilità del Presidente della Repubblica». Due suoi predecessori al Quirinale avevano questa posizione: Segni e Leone. Bene: qualche giorno fa ha ricordato anche Leone e ribadito il concetto a chiare lettere, visto che chi doveva farlo mostrava di non averlo compreso bene. Senza contare poi l’ineleganza, oltre che la scarsa cognizione delle dinamiche politiche, di chi per mesi ha sostenuto la modalità “rielezione a tempo”: costituzionalmente sbilenca perché avrebbe rappresentato, dopo l’esperienza di Napolitano, il consolidamento di una nuova consuetudine, certamente non vietata dalla Costituzione, ma neanche incoraggiata al punto da diventare prassi. E poi quale nebulosa si deposita sugli occhi di chi commenta al punto tale da non capire che siamo ormai sul ciglio di una terra incognita, quella del parlamento bonsai, che dal 2023 sconvolgerà per forza di cose (e di numeri) tutti le usate (poche) certezze, rendendo impossibile l’ipotesi di cessione dello scranno di Presidente ad un predestinato di oggi? Il quale ultimo, se effettivamente volesse servire la Patria dalla postazione quirinalizia dovrebbe farsi eleggere a gennaio e non aspettare altre incertissime occasioni…

Piuttosto, visto che ancora una volta Mattarella ha ribadito il tema della riforma costituzionale relativo alla non rieleggibilità dopo il primo mandato del Presidente della Repubblica, perché non raccogliere il suo impulso e lavorare per una riforma piccola e condivisibilissima (da tutti in questo Parlamento) ed anche necessaria perché rimuoverebbe un relitto – il semestre bianco– di un passato remoto? La durata di un mandato presidenziale in Italia è mediamente superiore a quella di altre Repubbliche democratiche e si mostra più che sufficiente a garantire “la continuità dell’azione dello Stato”, dunque sette anni possono bastare. Né si giustificano più le preoccupazioni che orientarono i Costituenti a prevedere nell’art.88 secondo comma l’impedimento per il presidente in carica dello scioglimento anticipato delle Camere negli ultimi sei mesi di mandato. Il semestre bianco, infatti, colpiva eventuali attività manovriere (peraltro non facili da configurare…) del presidente in uscita presso i neoeletti parlamentari al fine di promuoversi per un nuovo mandato. Se non c’è possibilità di nuovo mandato finisce la ragione di una norma che risente fortemente dello spirito del tempo in cui fu concepita.

Allora non c’è neanche da lambiccarsi il cervello per la proposta di riforma: “art.1- Il primo comma dell’art.85 della Costituzione è sostituito dal seguente: il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni e non è immediatamente rieleggibile. Art.2: Il secondo comma dell’art.88 della Costituzione è abrogato”. E l’autore non si prende neanche il (piccolo) merito della stesura di questa proposta di riforma costituzionale: è del Presidente del Consiglio Giovanni Leone, mentre al Quirinale c’era Antonio Segni. Correva l’anno 1963. Quanto ci vuole per approvarla? Il record di velocità risale al biennio 2012/2012, con la riforma dell’art.81 della Costituzione: cinque mesi. Si può fare.