C’è una frase chiave, nel lungo e dettagliato articolo dell’amico Andrea Pugiotto (“Giustizia, cannabis, eutanasia, può nascere un’Italia 2.0”, “Il Riformista 9 febbraio): «Conoscere serve a deliberare». Lo stesse parole che si possono trovare nelle prime pagine di un libro straordinario, Le prediche inutili di un grande politico, economista e presidente della Repubblica, il liberale Luigi Einaudi. Proprio Conoscere per deliberare è il titolo del capitolo primo di quel libro: «…Dico solo: non sappiamo nulla e alle nostre deliberazioni manca il fondamento primo: conoscere. Giova deliberare senza conoscere?…».

Le Prediche inutili Einaudi le pubblica a dispense, dalla fine del 1955, le riunisce in volume nel 1959. Moniti che non hanno perso attualità, e in particolare quello sul diritto alla conoscenza. Ancora: «…gli uomini liberali e quelli socialisti (o radicali, o progressisti)… vogliono medesimamente che l’uomo sia libero di pensare, di parlare, di credere senza alcuna limitazione, sono parimenti persuasi che la verità si conquista discutendola…». Se ne può ricavare che chi non coltiva questa aspirazione, alla conoscenza, alla verità conquistata con discussione e confronto, non è propriamente liberale (o socialista, o radicale, o progressista). Soprattutto si ricava che una democrazia si fonda su due pilastri, senza i quali affonda: la certezza del diritto; e il diritto alla conoscenza. L’uno nutre l’altro; l’uno presuppone l’altro. L’uno muore, se manca l’altro. Per tornare all’amico Pugiotto, al suo auspicio: c’è il serio rischio che la nascita dell’auspicabile “Italia 2.0” si traduca in aborto: che invece di una nascita si debba certificare un decesso.

Quello attuale è un mondo con una pluralità di fonti informative come mai in passato è accaduto di averne. Una Babele in cui non è facile orizzontarsi; e finché si tratta di un privato, gli va pure riconosciuto il diritto, entro determinate “cornici”, di fornire l’informazione che crede. Discorso diverso per il cosiddetto “servizio pubblico”: ha evidentemente maggiori doveri, rispetto ai “privati”. I numerosi dirigenti dell’ente radio-televisivo pubblico: la presidente Marinella Soldi; l’amministratore delegato Carlo Fuortes; i consiglieri di amministrazione Simona Agnes, Francesca Bria, Igor De Biasio, Alessandro Di Majo, Riccardo Laganà; ma anche tutti gli altri dirigenti, quelli che “lavorano” e “governano” quell’immensa macchina informativa/culturale: Diego Antonelli, Gaetano Barresi, Maria Berlinguer, Alessandro Casarin, Stefano Coletta, Antonio Di Bella, Franco Di Mare, Monica Maggioni, Andrea Montanari, Mario Orfeo, Sigfrido Ranucci, Gennaro Sangiuliano, Roberto Sergio, Andrea Vianello… Non c’è dubbio che sappiano bene di essere alla guida di un qualcosa che si chiama “servizio pubblico”. Il discorso a loro è rivolto. Peter Hacks, nel suo Il mugnaio di Potsdam: una commedia borghese fa dire al suo protagonista: «Ci sarà pure un giudice a Berlino!»; un giudice che riconosce il suo diritto, contro l’abuso dell’imperatore.

I radicali-mugnai quel giudice lo hanno trovato a Strasburgo. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) certifica, nero su bianco, che la lista Marco Pannella è vittima di quello che, senza tema di smentita, si può definire un “connotato antidemocratico”. Lo fa con due sentenze. Una, più particolare, relativa alla soppressione delle tribune politiche: l’Italia è condannata per mancanza di ricorso effettivo. L’altra, più generale, condanna l’Italia per violazione del diritto della Lista Pannella a poter comunicare le proprie proposte e analisi attraverso i media. Già questo solo giustificherebbe momenti di riflessione, dibattito, confronto: non è solo la “mania” esasperata di un singolo (Marco Pannella), o di un manipolo di sodali (il Partito Radicale), che denunciano e lamentano da anni censure, discriminazioni, violazioni deontologiche. Ora lo dice anche la Cedu; a questo punto converrebbe davvero fermarsi un momento e pensarci sopra: vedi mai che Pannella (quand’era vivo), e oggi Maurizio Turco, Marco Beltrandi e gli altri radicali, abbiano ragione; che il loro dire, le loro denunce un fondamento? Un dubbio, almeno, lo si dovrebbe coltivare.

Dicono: « evidente che la censura, nel corso dei decenni ha colpito innanzitutto Pannella. Censura che non è terminata con la sua scomparsa, ma si è aggravata nei confronti del Partito Radicale. Questa sentenza è la prova provata di un regime che trova la sua forza usando a proprio piacimento e convenienza il manganello dell’informazione, in continuità con il regime precedente, si sono solo affinate le tecniche». Dovrebbero saperne qualcosa, nei vari piani del palazzone di viale Mazzini. Copia di quella sentenza dovrebbe esser stata loro recapitata. Non saranno gli attuali “inquilini” i responsabili delle censure condannate dalla Cedu, loro non c’erano ancora. Ma quelle censure, quelle discriminazioni, pervicacemente durano, si perpetuano. Per quelle di oggi, sì, una loro responsabilità c’è.
Quello che è accaduto in passato costituisce un danno che per quanto sia stato sanzionato anche economicamente, non è certo sanabile. Come quantificare il danno a una campagna politica per la mancata informazione? Come risarcire il mancato conseguimento di un obiettivo perché la pubblica opinione non è stata messa nelle condizioni di conoscere, ed einaudianamente, poter deliberare?

La condanna risale al 31 agosto 2021. È stata emessa all’unanimità. Cos’è cambiato, da allora? La vicenda si riferisce alla mancata partecipazione di esponenti radicali nel periodo 1 aprile – 3 giugno 2010 (“Lento pede”, più di dieci anni fa!), ai programmi Porta a Porta (Rai Uno), Annozero (Rai Due) e Ballarò (Rai Tre): all’epoca, i più importanti programmi di approfondimento politico del palinsesto della Rai. Un po’ di storia, a questo punto fa bene: tutto nasce da un esposto presentato all’Agcom dalla Lista Pannella, per il mancato rispetto degli obblighi in materia di pluralismo informativo da parte delle emittenti televisive Rai. L’Agcom archivia non rilevando alcuna specifica sottopresenza della Lista Pannella rispetto ad altre forze politiche che, al pari di quest’ultima (secondo l’autorità di vigilanza), erano prive di rappresentanza parlamentare.

Segue impugnativa dinanzi al Tar Lazio: che accoglie il ricorso, e ordina all’autorità di vigilanza di rivalutare l’esposto; in particolare si deve tenere conto che: a) la Lista Pannella è un “soggetto politico”, dunque non paragonabile ad altre forze politiche non rappresentate in Parlamento (alcune delle quali hanno comunque partecipato ai citati programmi di approfondimento); b) occorre motivare in ordine alle ragioni che inducono l’Agcom, nonostante una numerosi precedenti di segno opposto, a non considerare le trasmissioni oggetto di denuncia come suscettibili di “autonoma considerazione” sotto il profilo del rispetto delle norme in materia di pluralismo informativo. Pervicace, l’Agcom, con una nuova delibera conferma l’archiviazione.

Nuovo ricorso al Tar Lazio, per ottenere la nullità della nuova delibera dell’Agcom; il Tar accoglie il ricorso, e dichiara nullità la nuova delibera; concede all’Agcom trenta giorni di tempo. A distanza di tre anni dall’esposto, l’Agcom – rilevato che «il programma Annozero è cessato e che, stante la riconosciuta autonoma considerazione dei tre programmi de quo, non può essere disposta la partecipazione degli esponenti ad altro programma analogo» – ordina alla Rai di invitare l’associazione ricorrente ai programmi Porta a porta e Ballaró entro il termine di conclusione annuale del ciclo (2013) di ciascun programma. La Rai si limita ad assicurare la partecipazione dell’on. Rita Bernardini, nel solo programma Porta a Porta; non si dà, quindi completa esecuzione alla delibera, l’Agcom omette di attivarsi per garantire l’ottemperanza della sentenza del Tar. A questo punto, interviene la Cedu. Stabilisce che l’Agcom ha disatteso il suo costante orientamento; segue la condanna della Rai.