La biblioteca dei politici
Cara sinistra, quali libri leggi? Manca una visione che vada oltre le emergenze
Riuscite a immaginare una biblioteca dietro i partiti di oggi? Non intendo concedere troppo all’antipolitica ma è impresa difficile. Prendiamo il Pd (cui continuo a sentirmi più vicino): cosa legge e studia la sua classe dirigente, quali autori, quali correnti di pensiero, etc.? Probabilmente in una politica ridotta esclusivamente a risposte su emergenze (Cacciari) non serve neanche più leggere. L’impressione non è tanto quella di un fervido laboratorio quanto di un confuso eclettismo, dove convivono, superficialmente e senza alcun attrito, filoni teorici opposti: La Pira e gli U2 possono convivere benissimo, però manca una seria elaborazione del passato culturale della sinistra.
Suggerisco di rimeditare l’esperienza di una rivista come “Politics”, che si faceva a New York nei primi anni del dopoguerra, a cui collaboravano Hannah Arendt, Orwell, Camus, Paul Goodman (uno dei maggiori rappresentanti della controcultura americana) e il nostro Nicola Chiaromonte (si veda Politics e il nuovo socialismo, a cura di Alberto Castelli, Marietti 2012). Esperienza maturata entro la componente più libertaria della cosiddetta Terza Forza, da noi abitualmente screditata. Sulla rivista la critica delle magnifiche sorti progressive della tecnologia (più distruttive che apportatrici di benessere), della involuzione dell’Urss (che già aveva esaurito la spinta propulsiva), della omologante società dei consumi (assai prima degli anatemi pasoliniani) si accompagna alla proposta di una “azione diretta” – di individui e gruppi – che qui ed ora realizza una “vita meno degradata” (dagli accordi fraterni entro piccole comunità a non collaborazione e disobbedienza personali). Vi sembra una proposta astratta e moralistica?
In “Politics” fondamentali per la lettura della situazione postbellica restano Tocqueville, Weber e Simone Weil. Ovvero: una società civile vitale (associazioni, club, forme di contropotere), avversa a ogni burocratizzazione, come precondizione della democrazia. E, dietro di loro, una costellazione socialista ottocentesca che comprende i classici dell’anarchismo Proudhon, Godwin ed Herzen, per il quale ogni fine troppo lontano nel tempo era ingannevole. Nel 1946 uscì un lungo intervento a puntate – “La radice è l’uomo” – firmato dal suo fondatore, quel Dwight Macdonald da noi conosciuto per un saggio letterario fondamentale sul cosiddetto midcult (ovvero la letteratura che simula “grandezza” banalizzando questioni e temi profondi). Macdonald contrappone ai “progressisti” i “radicali”, scettici sul progresso e su quella scienza che aveva pianificato Auschwitz e Hiroshima e propone un socialismo etico, “fondato sulla volontà di lottare per la libertà e la giustizia a partire da e nella situazione presente” (Castelli).
Presupposto è che la giustizia sia un concetto universale, presente a priori nella coscienza umana, dunque un valore assoluto, al di là delle sue mutevoli forme storiche: “Il riconoscimento in altri di una personalità uguale alla nostra” (Proudhon). Anche se il concetto di natura umana, aggiunge Macdonald, non è scientifico ma solo esprime il desiderio di ciò che un uomo dovrebbe essere. Non occorre peraltro essere “scientifici” a tutti i costi: anche il concetto di libero arbitrio è inverificabile però “è necessario comportarsi come se esistesse”. Inoltre: il comportamento più radicale – contrariamente a quanto si è sempre pensato – consiste nella misura, nel sapersi fermare. Il migliore approccio al socialismo è ricordare sempre “che l’uomo è mortale e imperfetto” e “quindi non dovremmo esagerare”. Il concetto di limite proviene dagli antichi greci, dalla loro visione tragica dei conflitti umani.
Riaffermando la sua fede pacifista Macdonald ricorda la doppiezza del nostro codice morale: tutti condannano il massacro di persone indifese, ma sono pronti a accompagnare il loro governo nella Terza Guerra Mondiale. La moralità è relegata agli spazi pubblici mentre i nostri costumi privati sono una “nauseabonda mistura di condotta cavalleresca e cinismo”. Anche qui: con largo anticipo sulla rivoluzione femminista degli anni ‘70 e sulla riscoperta del privato. Ma arriviamo al cuore del suo ragionamento: per Macdonald dal punto di vista marxista la coscienza è meno reale dell’ambiente materiale, l’individuo è meno reale della Storia, e dunque l’unica azione politica reale è quella di massa, dei partiti. Insomma è in gioco un “criterio di realtà”. Macdonald l’azione politica va invece ridotta a un livello modesto, senza pretese, personale, cominciando da piccoli gruppi, che discutono sia della bomba atomica che dell’educazione dei bambini. Occorre coltivare i valori nel presente, diffidando di “ogni ideologia che richiede il sacrificio del presente in favore del futuro”.
Già immagino qualcuno rimproverare a “Politics” l’assenza di Machiavelli e della tradizione del realismo politico, il tono moraleggiante, il persistere di una visione veteroumanistica obsoleta, il primato velleitario della “rivoluzione delle coscienze”, il culto ingenuo dello spontaneismo, l’utopia impotente del civismo sovversivo degli individui, cui sempre mancherà il momento più alto della sintesi (prerogativa dei partiti), e ancora il rifiuto aprioristico di qualsiasi uso della violenza organizzata (Tolstoj), anche quella “rivoluzionaria”, l’idea che ogni guerra una volta avviata tende ad autoalimentarsi (questo resta per me un punto controverso: “Politics” criticà perfino l’intervento degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale). Né – verosimilmente – potremo trovare sulla rivista risposte alle questioni urgenti di oggi, legate a globalizzazione, crisi demografica, catastrofe ambientale, etc. Eppure l’accento posto su una politica fatta da piccoli gruppi, che “dovranno comportarsi qui ed ora, anche nel proprio piccolo, in conformità con le proprie idee”, non vi sembra il necessario antidoto a una politica fondata sul continuo rinvio al futuro (la “Gerusalemme rimandata” stigmatizzata da Vittorio Foa)? Già, “la radice è l’uomo, qui e non altrove, adesso e non più tardi”.
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