Dopo aver parlato di Ignazio Silone su queste pagine, in relazione a Steinbeck, vorrei tornare sullo scrittore di Pescina, scandalosamente scivolato ai margini del canone letterario, ignorato o quasi dai manuali (Contini, Asor Rosa…). In Italia lui stesso tendeva a sentirsi esule. Eppure è stato amato da scrittori del calibro di Faulkner e Heinrich Boll, e la sua opera prima Fontamara, tradotta in tutte le lingue, scambiato in Croazia per una novella del folklore locale, preso a modello dallo scrittore indiano Raja Rao per il suo romanzo epico-storico Kanthapura, viene ovunque considerato una grandiosa epopea dei “cafoni” del Sud del mondo. In esso la rappresentazione dei contadini, svolta in termini mitico-realistici, da antica ballata popolare, non sfocia mai in un populismo edificante. Dopo ha pubblicato altri romanzi, a volte ripetitivi, altre volte troppo didascalici, ma sempre animati da tensione morale e intelligenza critica. E soprattutto il suo Uscita di sicurezza (del ’65, raccolta di saggi e conferenze dagli anni 40 agli anni 60) rappresenta il memoriale politico più importante della seconda metà del 900.

C’è da dire che, almeno recentemente, buona parte di questa silenziosa rimozione si deve alla storia di Silone come “sporca spia fascista”. Ora, è indubbio che negli anni 20 lo scrittore si incontrasse con l’ispettore Bellone, amico d’infanzia, cui offriva alcune rivelazioni sul Partito Comunista in cambio di un trattamento di riguardo verso il fratello arrestato per attività sovversiva. Però, dato che nessuno di noi ha il tempo di andare all’archivio di stato a vagliare attentamente l’intera documentazone (cosa che ovviamente gli storici sono tenuti a fare) mi limito a una considerazione di buon senso. Quando uscì Fontamara, nel 1933, divenne subito un manifesto dell’antifascismo europeo. Possibile che i fascisti non usassero le missive di Silone per delegittimarlo? Inoltre: quando Togliatti divenne ministro di Grazia e Giustizia, dal 1945 al 1946, ebbe accesso agli archivi del’Ovra.

Bene, possibile che neanche lui, che pure ebbe uno scontro feroce con Silone, con insulti e contumelie personali, ritenne di non adoperare quel materiale compromettente! Lo fece per superiore fairplay e senso di umanità (lui, che era stato il numero due del Comintern dopo Stalin)? Oltre al fatto che negli anni Venti Silone avrebbe potuto far arrestare Togliatti il giorno dopo e demolire l’organizzazione clandestina del Pci. A me sembra ragionevole la teoria, che fu di Terracini (la rivelò a Luce d’Eramo), di un triplo gioco voluto dal Pci: dare ai fascisti informazioni di scarso rilievo e nel contempo poterne spiare più da vicino certe logiche.

In seguito Silone dal punto di vista politico ebbe una certa coerenza: non seguì Saragat nella scissione del Psli del ’47 in polemica con il frontismo di Nenni, e abbandonò la politica attiva quando il suo Psu accettò di confluirvi. Continuò solo a a fare “politica” in modo indiretto, attraverso l’Associazione per la libertà di cultura e la rivista “Tempo persente”, fondata con l’amico e sodale Nicola Chiaromonte. Smascherò il carattere totalitario del comunismo ma senza mai arrivare all’anticomunismo aggressivo e un po’ fanatico di un Arthur Koestler (con il quale, in un incontro a Roma nel ’48, non legò affatto…). Nel ‘68 Silone ci apparve colpevolmente moderato, come Camus, anche se L’avventura di un povero cristiano pubblicato nel marzo ’68, il mese della battaglia di Valle Giulia, contiene una utopia anarchico-evangelica contro il potere. Rispetto a Chiaromonte è più vicino a una tradizione di cristianesimo evangelico, un “cristianesimo socialista”, come lo definì Heinrich Boll. E poi Silone non appariva letterariamente abbastanza “fine” o “di avanguardia”, proprio lui che più di ogni altro scrittore si muove al di fuori di qualsiasi galateo letterario.
Su “Tempo presente” (nel 1956) scriverà che «non c’è errore più fatale per un artista che l’identificare gli umiliati e oppressi con un qualsiasi partito».

In una intervista televisiva del 1963 ricorda una antica abitudine abruzzese, quella di tenere aperta la porta e la tavola imbandita nella notte di Natale, per poter dare ospitalità alla Sacra Famiglia in fuga dagli “sbirri di Erode”. Questa immagine di Maria e Giuseppe in fuga con il neonato come immagine dell’innocenza perseguitata (che percorre l’inera sua opera) dovebbe oggi ispirare il nostro comportamento e la nostra politica migratoria.