Ogni anno nel periodo natalizio andrebbe ricordata Hannah Arendt, che invitava a chiamare gli esseri umani non “i mortali”, ma “i natali” (tutti moriamo, è vero, ma anche tutti nasciamo!). Un saggio autobiografico, intenso e “avvincente” – Rinascere a questa vita, di Moreno Montanari (Moretti & Vitali) – prende le mosse proprio da Arendt: la facoltà di ciascuno di essere un nuovo inizio è «l’unico miracolo che preserva la sfera delle faccende dalla sua rovina». Altrimenti queste faccende seguono la legge della mortalità: gli esseri umani «anche se devono morire, non sono nati per morire ma per cominciare» (né il fine di qualsiasi cosa è il modo in cui si conclude).

Montanari a 19 anni viene ricoverato per una improvvisa embolia polmonare, dopo la quale ritrova un nuovo slancio vitale, una imprevista gratitudine per la vita. Ma lo slancio dura pochissimo, non si traduce in un nuovo inizio, in un nuovo stile di vita, e così lui torna presto alla condizione antecedente. Non basta la resilienza, la capacità di resistere agli urti, né basta limitarsi a sopravvivere, occorre invece rinascere a nuova vita, e dunque stabilizzare la “illuminazione” che un male può schiudere, andare oltre la mera spinta inerziale. È stata in fondo la stessa esperienza della prima pandemia del Covid: innumerevoli esempi di solidarietà, abnegazione, etc. ma senza che tutto questo riuscisse a trasformarsi in un nuovo inizio. La “reale posta in gioco” è usare il male per diventare migliori, più consapevoli e capaci di “solidarietà empatica” In che modo è possibile?

Montanari ci racconta che dopo 17 anni ebbe una seconda embolia. Stavolta, dopo essere sprofondato in una “cupa paura”, riesce ad affrontare il drago – anche grazie ad una psicanalisi junghiana e a una serie di fondamentali letture filosofiche – e così trasforma la malattia in un esercizio spirituale, nella attitudine «a restare concentrato sul qui ed ora e sul suo eterno farsi e disfarsi». Una seconda chance, oltre la mera resilienza. Il che non significa augurarci malattie, traumi ed epidemie a ripetizione, ma solo capire quanto sia difficile tradurre una crisi (nel caso della pandemia una crisi collettiva) nella trasvalutazione del proprio modo di vivere entro una forma socraticamente più saggia. Servono, come ricorda il grande Pierre Hadot nei suoi studi sulla filosofia greca, tecnologie del sé, esercizi della ragione analoghi all’allenamento dell’atleta, e che ognuno di noi troverà dove meglio crede, nello zen o magari nella frequentazione della poesia (la quale sempre ci fa sentire in intimità con le cose). Montanari, “analista filosofo”, sperimenta varie tecniche di meditazione, tra Oriente e Occidente – tutte finalizzate a sviluppare un’attenzione durevole, ad «essere nella presenza» oltre la mera soggettività, a «riconquistare il sentire originario delle cose» (Maria Zambrano) – per sé e per i suoi analizzanti.

Delle molte questioni sollevate – con intelligenza vera, esperienziale, mai intellettualistica – ne segnalo solo alcune. La spontaneità non coincide con l’autenticità, è anzi spesso «il prodotto indotto della voce di altri dentro di noi» (l’io è “tanti”, si compone di molte parti, che dovremmo armonizzare tra loro). L’amore, presente nel cristianesimo come nel buddhismo, non consiste in uno stato d’animo ma in un senso di mancanza che diventa apertura, in un “orientamento”, fatto di esercizi quotidiani, di abitudini coltivate, di una postura relazionale, etc., e anzi solo così smette di essere una parola stucchevole e consolatoria. Infine, la crisi di panico non è distante dall’esperienza panica (mistica) che ci fa sentire appartenenti al mondo, almeno se noi siamo capaci di usare la tremenda perdita di identità che comporta (la depersonalizzazione) per esplorare una nuova esperienza di senso.

Il nodo di fondo riguarda l’amore di sé, una “eresia” che solo nella cultura occidentale è diventata un valore. Ma come ci si ama? Un conto è amarsi solo come vincenti, di successo, performanti (o prestazionali), un conto è amarsi come creature, con la nostra fragilità e caducità, con la nostra vulnerabilità ontologica, dunque accogliendo la nostra ombra e la nostra presunta inadeguatezza, la nostra parte più impresentabile, più incomprensibile e spaventosa, e però comune a tutti gli esseri viventi. Solo nel secondo caso ci si apre al mondo e agli altri, si riconosce nel prossimo il nostro fratello. Al bel libro di Montanari ho solo due obiezioni. La prima riguarda certe – in verità rare – cadute stilistiche, l’uso di una lingua apparentemente tecnica ma che respinge il lettore comune, come «l’implementazione della nostra capacità di attenzione» o un «paradigma cognitivo intrinsecamente relazionale e sistemico». Quando la prosa è più in contatto con l’esperienza personale, ritrova tutta la sua freschezza.

E poi: non mi affiderei mai, come invece fa l’autore, a Nietzsche, al suo ambiguo invito a «restare fedeli alla Terra», che è poi fedeltà alla legge del più forte, alla sopraffazione, al culto aristocratico della durezza (sia pure per difendersi dalla propria stessa ipersensibilità). Piuttosto seguirei Cechov, che si prende cura della vita curando gli altri, che sceglie di stare in basso – dove si sente il fango -, disposto ad accettare la vita per intero, con la quantità di dolore gratuito che contiene, senza giudicarla, che non cerca lo straordinario e lo spettacolare, e che scrive «il male sta nel fatto che noi cerchiamo di risolvere astutamente la questioni più semplici e perciò le rendiamo straordinariamente complicate. Bisogna cercare la soluzione più semplice». Ecco, credo che per “rinascere” davvero occorra cercare sempre la soluzione più semplice, rinunciando ad ogni astuzia.