Una visione radicale
Nicola Chiaromonte, l’attualità dell’impolitico: una critica libertaria del potere

Si svolgerà oggi 29 aprile a Roma, fra Istituto Sturzo e Senato della Repubblica, la giornata di studio: “Nicola Chiaromonte, o del pensiero libero”. Organizzata dalla Fondazione Matteotti e dal Centro per la filosofia italiana, con la rivista “Tempo presente”, interverranno, fra gli altri: Pietro Adamo, Dino Cofrancesco, Filippo La Porta, Raffaele Manica, Corrado Ocone, Rossella Pace e Cesare Panizza.
In una delle note del bel Meridiano Mondadori dedicato a Nicola Chiaromonte, uscito pochi mesi fa, il curatore, Raffaele Manica, osserva che il concetto di “malafede” è un diapason nelle opere dello scrittore lucano morto giusto cinquant’anni fa all’età di 67 anni. In effetti esso non solo ritorna in più circostanze, ma, a ben vedere, può essere preso come una chiave ermeneutica proficua per capire la mentalità, e quindi anche l’attualità, di questo intellettuale molto atipico (almeno per gli standard italiani).
Il paradosso è che, con piena consapevolezza, Chiaromonte fa proprio e trasvaluta un termine-concetto che era al centro del pensiero di Jean Paul Sartre, il filosofo più à la page negli anni immediatamente seguenti la seconda guerra mondiale: malafede è in generale, per colui che era allora il capofila teorico dell’esistenzialismo, lo stato “assurdo” in cui si trova di necessità l’essere umano, cioè quell’ente che oltrepassa continuamente nella coscienza il mondo ma è continuamente e strutturalmente legato ad esso, cioè alla forza inscalfibile delle cose e delle situazioni.
Quando, nel 1943, L’essere e il nulla, il capolavoro sartriano in cui questi concetti sono ragionati, uscì, Chiaromonte si trovava in esilio in America, ormai pienamente inserito in quei circuiti intellettuali newyorkesi che ruotavano attorno alle riviste “Partisan Review” e “politics”, a cui collaborava, e a intellettuali come Dwight Macdonald, Mary McCarthy e Hannah Arendt, che erano tutti in vario modo suoi amici. E fu proprio a New York che, due anni dopo, nel pieno della fortuna anche presso la cultura media di Sartre, Chiaromonte conobbe il filosofo parigino. Lo incontrò grazie agli auspici di Albert Camus, con il quale era diventato amico nel corso del suo soggiorno ad Algeri nel 1941, prima di imbarcarsi per gli Stati Uniti, costretto a fuggire da quella Parigi ormai conquistata dai nazisti e ove aveva creduto di trovare la pace e la tranquillità che in Italia il fascismo gli negava. Fra i due non si instaurò mai una simpatia umana, rappresentando Sartre per Chiaromonte una sorta di antitesi a quella figura dell’intellettuale pubblico non schierato a cui lui guardava.
In ogni caso, il concetto di malafede fu ripreso da Chiaromonte solo nel 1952, nel pieno della guerra fredda, come titolo di una conferenza tenuta a Firenze per inaugurare la locale sezione dell’Associazione italiana per la libertà della cultura, a cui aveva dato vita insieme a Ignazio Silone sull’esempio di quel che succedeva negli altri Paesi occidentali. Era una risposta liberal-democratica alla vasta penetrazione sovietica nel mondo delle arti e delle scienze (si pensi al movimento dei “Partigiani della Pace”). Quel che è certo che, al contrario di Sartre, Chiaromonte fa della malafede un concetto pubblico e non privato, non legato ontologicamente all’esistenza umana ma indicante una condizione storica particolare, la nostra attuale. La malafede è prima di tutto “lo spirito del tempo”: segnala il fatto che l’uomo ha perso la fede non solo in Dio ma anche in una qualsiasi idea che dia senso al mondo.
Pur tuttavia, consapevole che senza una fede non si può vivere, l’uomo se ne dà a caso sempre qualcuna: le segue con inflessibilità e intolleranza ma sa nel suo profondo che sono posticce, non vere. E poiché si tratta di credenze non credute che tendono a sacrificare l’uomo in nome di qualcosa a lui esteriore, ne consegue che è proprio il rapporto morale fra i singoli che tende a scomparire in un mondo sempre più falso e ipocrita. Il forte desiderio di autenticità che animava la prospettiva di Chiaromonte, tutto sommato, non è traducibile in politica. E forse proprio come una radicale critica libertaria al potere, qualunque forma esso assuma, va intesa tutta la sua ricerca. Impolitico per natura, come la sua tanto amata Simone Weil (fu all’origine della sua fortuna facendola conoscere a Camus e agli amici americani), Chiaromonte faceva vedere la politica dal suo retro, fosse pure utopico. La sua opera e attività rappresenta un costante monito a diffidare del potere. Vale per il suo e per ogni tempo.
© Riproduzione riservata