L’italiano, inutile occultarne la storia, ha un sincero debole per le divise e soprattutto per la loro vestibilità spettacolare. Così dalla mimetica alla “drop”, senza neppure dimenticare l’uniforme di gala bianca estiva. Ciò sia detto senza citare, almeno inizialmente, l’orrendo fascismo che, in termini di uniformologia, ha donato all’immaginario maschile e perfino femminile davvero molto. Al momento però, facendo un passo avanti fino agli anni Sessanta, basterebbe menzionare una battuta de Il sorpasso, quando il giovane Roberto Mariani-Trintignant ascolta da Gianna, l’ex moglie di Bruno Cortona-Gassman, il racconto secondo cui lui l’avrebbe sedotta in tenuta da ufficiale dei marines, aggiungendo che a Bruno, quell’uniforme, era subito piaciuta fino a procurarsela e indossarla come se davvero fosse al seguito del generale Clark.

Forse, chissà, dovrebbe bastare solo questo graffito per rispondere ai timori di nuovi golpe e alla semplice percezione fantasmatica d’autoritarismo manifestati dalla scrittrice Michela Murgia, sia detto da chi ha una memoria esatta di ciò che Pietro Nenni, al tempo di “piano Solo” del generale De Lorenzo, ebbe a definire “un tintinnare di sciabole”. Ora, per non farla troppo lunga con certe passioni da baby-boomer, escludendo perfino il racconto dei soldatini da ritagliare lungo le pagine del Corriere dei Piccoli, compresi i fanti del Carso, sarebbe comunque il caso di raccontare i nostri desiderata infantili durante il Carnevale. Lì nessun dubbio, tutti o quasi, avremmo voluto vestirci chi da Zorro chi da moschettiere e così via fino al proverbiale, lo avrete già intuito, marine.

Personalmente, mi sognavo in uniforme da nordista della guerra di secessione americana, peccato che il negoziante, dopo aver controllato la merce sugli scaffali, così pronunciò: «C’è da sudista, ti va bene lo stesso?». Dunque, non soldato blu, bensì grigio bordato di giallo. Morale: anch’io, sebbene più prossimo al pensiero anarchico che non a immaginarmi cadetto presso l’Accademia di Modena, ho indossato per puro piacere un simulacro di divisa, e non mi dilungo neppure sull’infanzia trascorsa in una caserma con nonno sarto, per l’appunto, militare, cosa che ancora adesso mi consente di riconoscere i fregi di appartenenza d’ogni corpo, comprese le mostrine e le fiamme dei singoli reggimenti: il nero bordato di giallo dell’artiglieria, il blu e nero degli autieri, il bianco dei Lancieri di Novara, il cremisi dei bersaglieri.

Ora, restando sempre in tema di uniformi, è giunto l’esatto momento di soffermarsi su quanto il fascismo volle farne uso, cominciando a vestire i piccini da “figli della Lupa”, gli adolescenti da avanguardisti-moschettieri, così fino a Console generale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale; e non diremo dei Moschettieri del duce, muniti di colbacco fregiato dal teschio incrociato con due fioretti. Quando Michela Murgia manifesta il suo legittimo stupore nel vedere ubiquo il generale Figliuolo in mimetica e cappello da alpino, forse omette di pensare (al di là d’ogni riflessione sulle suggestioni del profondo, dove la divisa potrebbe perfino ricondurre alle pagine del Portiere di notte) che di recente l’Esercito è stato chiamato in campo per l’eccezionalità critica della pandemia, e, forse, ciò accade poiché lo si ritiene in possesso di un know how capace di rispondere o comunque supportare il piano vaccinale; altrettanto accertato che dopo ogni sisma i primi ad arrivare sono proprio i soldati, sia pure accompagnati dalla (successivamente creata) Protezione civile.

Quanto a me, faccio fatica a immaginare Figliuolo Francesco Paolo, generale, “già comandante logistico dell’Esercito italiano dal 2018, dal primo marzo 2021 commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica COVID-19”, nei panni del generale Pariglia. Per il nostro, al momento, basta e avanza l’imitazione che ne fa Maurizio Crozza, dove Figliuolo si degrada da solo, strappandosi le mostrine dalla divisa colma di nastrini, assodati i ritardi del piano vaccinale. Fra l’altro, Pariglia è dell’aeronautica e non un alpino, sia detto per precisazione.

Adesso alcuni diranno: e chi cavolo è il generale Pariglia? E qui torna subito utile la nostra passione per l’uniformologia, nel dettaglio applicata al cinema, con Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli, dove, a golpe in parte avvenuto, proprio il Pariglia dovrebbe fare il discorso alla nazione per annunciare l’arrivo del “pugno di ferro”. Peccato che il colpo di Stato non potrà compiersi dato che i congiurati, compresi gli squadristi capitanati da “Er Nerchia”, giungono in ritardo presso il centro di produzione Rai di via Teulada a Roma, nel 1974 le trasmissioni cessavano prima della mezzanotte. L’ho detto che il fascismo impose a tutti una divisa, perfino alle massaie rurali, ai Guf, Gruppi Universitari Fascisti, al Personale civile dello Stato?

Chissà se ho citato a Pasolini che, sempre a proposito di divise, nella “lettera” agli studenti dopo la battaglia di Valle Giulia, racconta: «E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio furerie e popolo». Chissà se ho ricordato che periodicamente il pendolo della moda, sebbene non necessariamente immaginando il ritorno dei generali De Lorenzo e, va da sé, Pariglia (“Grand’Ufficiale Alceo, ex comandante del XXV° Settore Aeroporti d’Italia in pensione e semirimbambito, o almeno così lo demolisce un recensore su un portale neofascista”) ritrova il grigioverde delle t-shirt?

Avrà certamente Michela Murgia visto un altro film dove, in tempi non pandemici, l’autorità militare viene messa in discussione anche nelle sue implicazioni psicoanalitiche, compreso il tema del potere e del dominio sul femminile, ossia Marcia trionfale di Marco Bellocchio, questo per dire che, perfino quando si afferma il feticcio perturbante delle divise, la complessità è d’obbligo, così come le parole degli anarchici che in Spagna nel 1936 chiarirono i propri intendimenti: miliziano, sì, soldato mai, e invece dell’uniforme indossarono, il “mono”, cioè la tuta blu della fabbrica, forse anche quella una divisa. Forse.

Post scriptum dell’ultim’ora: Non era mai accaduto, ma la regina Elisabetta ha preteso che per i funerali del suo consorte, il principe Filippo, duca di Edimburgo, nessuno dei presenti indosserà l’uniforme militare, una notizia che certamente darà gioia a Michela Murgia.

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Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube. Il suo profilo Twitter @fulvioabbate