Angela Carini, nel lasciare il ring, aveva un’espressione disperata. Non sentiva la sconfitta, sentiva l’ingiustizia. Lo stesso sgomento dell’algerina Imane Khelif. Dietro la maschera impassibile che copriva i suoi già duri lineamenti, c’era un’ombra di paura. Cosa accadrà, da domani? Nel mio paese, dove già solo compiere atti omosessuali è un reato. E in tutto il mondo, che ha visto in diretta questo duello senza scontro, questi tremendi 46 secondi in cui la nobile arte del pugilato sembrava un’esecuzione.

Ieri abbiamo assistito a due umiliazioni allo specchio. Alla negazione plateale e imperdonabile di due diritti. Quello dell’azzurra Carini a combattere, e magari perdere, ma giocandosi le Olimpiadi ad armi pari. Quello della rossa Khelif a non veder travolti dal fango non solo i suoi sacrifici ma la sua stessa identità di persona. Un trans evirato, un uomo travestito e sleale, un truccatore antisportivo favorito dall’odio verso Putin. Così la chiamano. Già, perché tanti dei commenti sul match di oggi iniziano con la frase “il pugile algerino”, e poi pretendono pure di essere equilibrati. Come è giusto restare attoniti di fronte alle lacrime di Angela, si dovrebbe pensare anche ai pensieri di Imane, che donna è sempre stata, anche se “intersessuale” cioè provvista di ormoni maschili oltre la norma. Donna, da quando dal suo villaggio si faceva 10 chilometri al giorno per arrivare in palestra, e raccoglieva il metallo dai rifiuti per pagarsi gli allenamenti e un biglietto dell’autobus. Da allora fino ad oggi, a quella manciata di secondi finita con l’arbitro che alza il suo braccio e la sua avversaria che di fronte al suo saluto neppure la guarda.

Nel frastuono da stadio le persone non esistono più, e con loro evaporano i sentimenti, le emozioni, la dignità. Oggi Angela Carini è solo l’eroina della destra che issa il solito cartello con su scritto “vergogna”. Imane Khelif, invece, lo è della sinistra per cui tutti i diversi sono comunque uguali, persino su un ring di boxe, ed è politicamente scorrettissimo dire il contrario. La realtà è che sono due ragazze e basta. Due ragazze lasciate sole da strutture direttive dello sport incapaci persino di coordinarsi, fra mondiali e Olimpiadi, per decidere delle regole di base: quali sono i limiti di testosterone ammissibili per restare nelle competizioni femminili, ad esempio. Lasciate sole da una politica che invece di definire il campo di gioco preferisce restare sugli spalti a tifare. E lasciate sole persino da chi, infallibile dietro una tastiera, si sente Dio e decide chi è uomo e chi è donna. E, con il pretesto di difenderle, sputa sentenze e le offende ancora.