Il pretesto
Caso Nicosia, “garantisti cioè mafiosi”: l’assalto ai figli di Pannella
Se, come sostiene la procura di Palermo, Antonello Nicosia, l’ex collaboratore parlamentare di Sciacca fermato per associazione mafiosa, strumentalizzava la possibilità di accedere agevolmente agli istituti di pena al seguito della deputata Giuseppina Occhionero (sentita ieri dai pm come testimone) per veicolare all’interno e dall’esterno messaggi e ordini dei boss, è forte in queste ore il rischio -per non dire la certezza- che il suo caso venga strumentalizzato a propria volta. Brandito, per meglio dire, contro l’attività di monitoraggio delle carceri finalizzata alla vigilanza e alla tutela dei diritti di chi sta scontando una pena. Tanto per cominciare, le reazioni all’arresto di Nicosia, presentato da più parti sui media come “esponente” o “dirigente radicale”, allungano l’ombra del sospetto sull’iniziativa dei radicali che delle carceri hanno fatto il principale terreno di lotta politica. Denunciare le drammatiche condizioni delle carceri italiane, e battersi per il loro miglioramento, è l’obiettivo delle frequenti visite da loro organizzate ed effettuate negli istituti in tutta Italia. Sono invece ben diversi gli scopi che Nicosia avrebbe perseguito, anche strumentalizzando l’elezione nel 2017 nel comitato di Radicali Italiani per accreditarsi presso le strutture penitenziarie, come precisato dagli stessi pm della dda di Palermo. Ecco perché in questa vicenda, su cui le indagini faranno il proprio corso, i radicali appaiono dunque a tutti gli effetti come una parte lesa.
Eppure ieri in prima pagina il Fatto Quotidiano annunciava: “La storia dei garantisti all’italiana”. Il caso di Nicosia «non deve restare confinata nella sua dimensione penale», si poteva leggere nell’articolo all’interno, «a prescindere dalla conclusione giudiziaria» dovrebbe «accendere un dibattito serio sulla natura di “lobby garantista” usata come ‘bus’ dai criminali di ieri, oggi e domani, assunta dai radicali». A dimostrazione di tale tesi, seguiva una carrellata di dichiarazioni pubbliche (alcune piuttosto datate), iniziative politiche (come la raccolta firme per i referendum sulla giustizia del 2013 o quello sulla responsabilità civile dei magistrati), e aneddoti degli ultimi 30 anni in cui si facevano incrociare il mondo mafioso con quello radicale. «Nulla di illecito», precisava tuttavia, a più riprese, l’estensore dell’articolo. L’arsenale probatorio a supporto della tesi della “lobby cara ai criminali” veniva ripreso nell’editoriale del direttore. «Nel 2013 Pannella raccolse le firme (compresa quella del neopregiudicato B.) per abolire, fra l’altro, l’ergastolo, rendere ancora più intimidatoria la responsabilità civile delle toghe e limitare vieppiù la custodia cautelare: Giuseppe Graviano, in carcere, esultò per l’ideona e la firma di B. Oggi, crollata FI, i clan si guardano intorno a caccia di chi lanci segnali d’apertura alle loro esigenze. Per esempio – scriveva ieri Marco Travaglio – chi plaude (o tace) alle scandalose sentenze anti-ergastolo ostativo della Cedu e della Consulta. Posizione legittima, ci mancherebbe – è la premessa – purché chi la tiene apra gli occhi sui voti e gli infiltrati mafiosi in arrivo». Anche i recenti pronunciamenti della Corte europea dei diritti umani e della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo, che hanno aperto ai permessi premio anche per chi non collabori con la giustizia, sono quindi finiti nel mirino dopo l’indagine di Palermo che ha portato all’arresto di Antonello Nicosia e di altre 4 persone. E c’è chi come l’ex presidente del Senato ed ex procuratore Pietro Grasso, intervistato ieri dal Fatto, propone lo stop all’ingresso in carcere dei collaboratori dei parlamentari: «anche solo una visita ai detenuti quando non si conoscono i propri collaboratori o i codici mafiosi, può avere grandi conseguenze», avverte. «I parlamentari devono controllare che vengano rispettati i diritti dei detenuti. Bisogna tutelare questa funzione. Ma i politici devono essere accompagnati dalla polizia penitenziaria e dal direttore del carcere. Possono parlare solo delle condizioni di vita in cella, se si parla di altro deve essere segnalato. Maggiore attenzione poi quando i contatti sono con chi si trova al 41 bis: i detenuti al carcere duro non devono avere alcune possibilità di comunicare su temi al di fuori delle condizioni carcerarie, neanche durante le visite ispettive dei parlamentari». Ma su questo la norme che regolano le visite in carcere sono estremamente rigide. Solo il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, con membri del suo collegio, può richiedere un colloquio riservato anche con detenuti in regime di 41 bis. Tutte le altre figure, dai garanti regionali, provinciali e comunali, e i parlamentari nell’esercizio del sindacato ispettivo non hanno questa facoltà. Saranno le indagini quindi a chiarire in che modo Nicosia, pur entrando come collaboratore della deputata Occhionero, abbia potuto comunicare con i boss. «Si tratta di un fatto grave che non deve comportare una generalizzazione», spiega al Riformista Daniela De Robert, componente del collegio del Garante nazionale dei detenuti, «La vigilanza e la tutela dei diritti è fondamentale, ed è un lavoro di grande responsabilità».
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