«Cesare morì», scriveva G. A. Borgese, «e la tirannia continuò: perché la tirannia non risiedeva nel cuore di Cesare, ma era nel cuore dei Romani». E ora io capisco il sollievo di tanti, e il loro senso di riscatto, per la sentenza palermitana che ha mandato assolte le vittime del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia. Ma è sbagliato e pericoloso credere che questa decisione giudiziaria implichi la sconfitta della cultura che ha inscenato quel processo indecoroso. Sbagliato e pericoloso è credere che si sia trattato di un impazzimento di pochi funzionari fanatizzati, inopinatamente liberi di imperversare fino al ripristino, l’altro giorno, dello Stato di diritto che avrebbe archiviato per sempre le loro farneticazioni.

È sbagliato e pericoloso perché in questo modo si rinuncia a riconoscere la realtà diversa e molto meno rassicurante di un intero ordine sociale che ha consentito, e spesso anche reclamato, l’affermazione e l’accreditamento di quel loro potere usurpato. Come il fascismo non fu un accidente maligno incistato in un corpo altrimenti sano, ma un grande e tragico esperimento dello spirito nazionale, così il finalismo antimafia, quello in nome del quale si adotta il mezzo del rastrellamento giudiziario, dell’indagine a strascico, della tortura in carcere, non fu l’incomprensibile messa in pratica di qualche isolato vagheggiamento di un manipolo di pubblici ministeri: ma l’attuazione di una cultura diffusa e la soddisfazione di una pretesa comune.

Questo non significa che non occorra compiacersi di una buona sentenza, quando c’è. Significa tuttavia non cadere nell’errore di credere che, chiuso quel processo, si sia aperta una via nuova della giustizia: perché nemmeno quest’altra tirannia, la tirannia giudiziaria, risiede solo nel cuore di pochi e disinvolti accusatori pubblici, ma è nel cuore di molti italiani.