Che senso ha costruire nuove carceri, istituti dedicati all’espiazione di una pena, quando in tutto il mondo si aboliscono pene di morte, si decidono moratorie delle esecuzioni, si scelgono pene alternative e immaginano alternative alla pena, si commutano condanne, si liberano detenuti? Sembra aver senso in Italia, dove si concepiscono monumentali piani-carcere, opere pubbliche per la espiazione di pene, campi di concentramento dell’odio, della violenza e del dolore in risposta all’odio, alla violenza e al dolore portati del delitto.
Entro la fine di gennaio, ad esempio, conosceremo il luogo in cui sarà costruito il carcere destinato a sostituire la Casa circondariale di Savona, chiusa nel gennaio del 2016 per le gravi condizioni di degrado della struttura: un convento edificato nel 1300 e poi trasformato in carcere.
Tra pochi giorni, funzionari del ministero verificheranno l’idoneità dei siti proposti dai Comuni di Cairo Montenotte e Cengio, candidati a ospitare la nuova struttura. Siamo ormai all’epilogo di una vicenda che, all’indomani di una interpellanza urgente, presentata nel novembre scorso dalla deputata Sara Foscolo, ha coinvolto i diversi livelli istituzionali e che ha portato – con l’impegno del presidente della Provincia di Savona Olivieri e del deputato ligure Franco Vazio – prima all’esclusione di siti nel Comune di Savona, quindi all’individuazione di quattro aree in val Bormida.
Le intenzioni, ovviamente, sono buone: costruire un carcere che non sia semplicemente un luogo con sbarre ma un luogo dove svolgere attività di recupero dei detenuti; un luogo che consenta una sistemazione dignitosa alla polizia penitenziaria e opportunità di lavoro reale per i carcerati; spazi adeguati ad avvocati, magistrati e famiglie dei detenuti. Va scelto un sito che abbia almeno la dimensione di 50.000 metri quadrati. È questo il senso di quanto Franco Vazio, vicepresidente della Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati e portavoce, per l’occasione, degli enti locali liguri, ha comunicato al sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis. Se siano più realistici gli auspici e i propositi del vicepresidente Vazio (che riconosce la necessità di creare infrastrutture) o i timori di quanti sostengono che, in quelle zone non esistano le connessioni – anche fisiche – per mettere in rete con il territorio una struttura adeguata alle ambizioni, lo dirà il tempo.
Certo è che – per usare le parole che utilizzò il Presidente Napolitano – «un abisso separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità della persona». Il Presidente della Repubblica corrispondeva, allora, a un lungo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella; oggi Rita Bernardini (presidente di Nessuno Tocchi Caino – Spes contra Spem) non ha incontrato la stessa sensibilità ed è costretta a riprendere lo sciopero della fame, sospeso dopo 35 giorni in vista dell’incontro che poi aveva fatto ben sperare con il Presidente del Consiglio. Sembra che nulla sia cambiato dalla sentenza Torregiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e che, anzi, la cultura dominante veda il carcere come luogo di concentramento e di vendetta su persone cui nemmeno si riconosce più il diritto alla salute, come temevano i dirigenti del Partito Radicale che in occasione della “prima ondata” avevano denunciato presso tutte le Procure della Repubblica il Ministro della Giustizia Bonafede e il capo del Dap pro tempore per epidemia colposa. In questa situazione è forse opportuno ricordare – come fa il Prof. Tullio Padovani nella prefazione al libro Il viaggio della speranza – che «Il carcere non si uniforma affatto (come si racconta mitologicamente) al criterio dell’extrema ratio nel senso che vi si faccia ricorso soltanto in casi estremi, ma a quello dell’estrema marginalità nel senso che con il carcere si stabilisce e si assicura il peggiore trattamento possibile dei criminali».
Un invito a cambiare prospettiva. Forse la situazione straordinaria determinata dalla pandemia, e dai progetti e finanziamenti messi in campo dall’Unione Europea, potrebbero fornire la possibilità di immaginare qualcosa di meglio del diritto penale; di costruire una giustizia che ripara (come sostiene Gherardo Colombo, autore de: Il perdono responsabile). Di cominciare a rinunciare a una giustizia che aggiunge male al male, dolore al dolore, provoca squarci ulteriori alle lacerazioni della società.

Emiliano Silvestri

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