Nell’estate del 2018 volli trascinare Raffaele (Dudù) La Capria allora 96enne in un dialogo pubblico a Porto San Giorgio, nelle Marche, entro una rassegna dal titolo molto “lacapriano”, “Il mare dentro”. Un autista andò a prelevarlo a Roma e lo portò, dopo tre ore, nella località balneare. All’inizio Dudù mi appariva molto stanco, un po’ frastornato – mi chiese troppe volte di quale tema avrebbe dovuto parlare – e temetti per l’incontro. Poi la sera di fronte a duecento persone cominciò a improvvisare fluentemente come un consumato attore shakespeariano e incantò quel pubblico con il suo inesauribile repertorio “mediterraneo”. La Capria, che nel 1963 vince lo Strega – dopo l’esordio di Un giorno d’impazienza, 1952 – con il bellissimo Ferito a morte, romanzo faulkneriano e narrativamente spiazzante, sapeva sempre riannodare il patto con i lettori e anche nella sua vena sperimentale non inseguì mai nessun oltranzismo formale.

Dopo Ferito a morte La Capria non ha più scritto romanzi (a parte Amore e psiche, poi ripudiato), per la ragione che non erano più nelle sue corde. Avrebbe avuto certo la “tecnica” per scriverne a decine (oggi ai narratori si chiede di sfornare un romanzo ogni due anni!). Invece lui, più onestamente, ha continuato la sua attività di narratore reinventandola in altri generi letterari: nella saggistica autobiografica, nella critica letteraria, nel memoir. Cito solo, alla rinfusa, L’occhio di Napoli, L’armonia perduta, Letteratura e salti mortali, L’apprendista scrittore, L’estro quotidiano, L’inchiesta amorosa.… Tutti esempi di una letteratura al confine tra generi diversi. Sempre inseguendo quello che definì lo “stile dell’anatra”, nel quale tutto ci appare miracolosamente semplice perché vi si nasconde la fatica e la complessità, proprio come l’anatra che scivola sul lago ma sott’acqua agita vorticosamente le zampette. Un’idea di bellezza che ha il suo antecedente nella “sprezzatura”(apparente trascuratezza) del Cortegiano cinquecentesco di Castiglione. Certo, si pone in modo antagonista rispetto alla concezione dell’arte che il ‘900 ha coltivato – pensiamo solo all’arte performativa dove fatica, imperfezioni e sofferenza si esibiscono – eppure non credo vi si possa rinunciare del tutto. Niente di elitario nel buon senso: si tratta di una disposizione che appartiene a ciascuno di noi, nella affollata, anonima società di massa, ma, si badi bene, a ciascuno preso in quanto “individuo”, con la sua attitudine critica, dissenziente, con la sua ragionevolezza e capacità di stupore.

Nelle vesti di critico militante – al tempo stesso severo e fraterno – ci mette in guardia soprattutto contro la “falsa buona letteratura”, più subdola della “cattiva letteratura”, poiché è “disanimata e complicata”. Inoltre, assai prima delle palinodie degli strutturalisti pentiti alla Todorov, ci mostra l’aridità dei dottori sottili dell’interpretazione, impegnati a smontare e rimontare pedantemente le opere letterarie. La Capria era anche un acuminato critico della società, delle mode e dei linguaggi: la sua “riscoperta” del senso comune fu poco meno che eversiva, in una cultura italiana innamorata di un radicalismo tutto retorico, lontano dall’esperienza. I suoi sono “scritti corsari”ma come in punta di piedi, senza clamori e senza alcuna esibizione di pathos. Intransigenti e ragionevoli, moralistici ma in nome di un edonismo quasi “naturale”, di origine mediterranea, ellenica, pagana.

Si è è sempre sentito come uno “straniero” in patria, è uno dei non molti intellettuali inappartenenti, del tutto disorganici in cui si trova il meglio della cultura italiana della seconda metà del ‘900 (Chiaromonte, Pampaloni, ma anche Parise, Flaiano…). La sua è una inappartenenza non solo politica ma direi metafisica: in un certo senso non appartiene interamente alla sua città, Napoli (con cui era da sempre “in poetico litigio”), né appartiene interamente a quella immagine di felicità radiosa che pure illumina tutti i suoi libri La sua “bella giornata” infatti lungi dall’essere una suggestione estetizzante si rivela come mito tragico perché ci mostra tutto ciò che nega oggi la bella giornata. Va bene, non è vissuto nel Bronx napoletano ma a Palazzo Donn’Anna di Posillipo, di fronte al mare luccicante pieno di dei e semidei, ma per criticare l’esistente (gli orrori, la bruttezza, la falsità della vita sociale), occorre una qualche esperienza della bellezza, della felicità, della verità che ci proviene dal passato.

Sono particolarmente affezionato a un libretto prezioso, A cuore aperto, meditazione autunnale sull’esistenza, esercizio spirituale e quasi trattatello yoga sulla nascosta “intelligenza” del corpo e infine miniricettario di cucina partenopea. Appunti quotidiani, riflessioni del dormiveglia, sogni, canzoni di moda tanto tempo fa, pensieri di un sonnambulo, apologhi politici, brani di dialogo(con la moglie, con un giardiniere…), compongono un diario esistenziale che finisce in una dichiarazione di pietas creaturale: “il corpo è sacro, qualunque corpo, quello di un animale e quello umano”. Si comincia con l’infarto, il by-pass e il risveglio dall’anestesia. Quando gli dicono tutti che dopo l’operazione è “rifiorito”, lui pensa a un albero che ebbe straordinaria rifioritura prima di morire e fa qualche scongiuro…Ed è la “superficialità” che lo ha protetto: l’aderire alle umili cose e alla fugace apparenza, quel “vivere nella prossimità” vanamente inseguito dal Nietzsche della Gaia scienza. Non resistere all’onda impetuosa del divenire, ma cedervi.

Il pensiero della morte dà valore all’istante vissuto. Immaginarsi un congedo da qualche cosa – anche se provvisoriamente – ce la fa amare di più. La Capria rievoca l’atto con cui fin dall’infanzia chiude gli occhi, fa sparire il mondo e poi quando li riapre “tutto ritornava com’era. Ed era bellissimo”. Già, “alla fine la vittoria è l’esserci”, è abitare – incuranti dell’eternità – questo unico mondo sublunare, caotico, indecifrabile, anche doloroso, ma a suo modo ordinato e tangibile, pieno di vita. Nei libri di La Capria si celebra una gaia e malinconica scienza dell’esistenza, la quale è sempre scarto, naufragio, ferita, ma naufragio generatore di sentimenti, sogni ed esperienze…Quale scrittore italiano recente è stato capace di una leggerezza così impalpabile, pur dentro il tragico?