Enrico Testa, detto Chicco, è un dirigente d’azienda con antica passione politica. Deputato per due legislature, si occupa di energia e di crescita, temi sui quali scrive per Il Sole24 Ore, il Corriere della Sera e Il Foglio. “Elogio della crescita felice”, uscito con Marsilio, è il suo ultimo saggio. Ha firmato, insieme con Claudio Velardi, una lettera che chiede a Matteo Renzi e Carlo Calenda di fare entrambi un passo indietro.

Come descriverebbe quello che è successo con queste elezioni?
«Oggettivamente ci sono stati due fallimenti. Quello della lista Stati Uniti d’Europa e quello di Azione. Più uno più grande: quello di un’area politico-culturale che aspetta di avere una rappresentanza e che una volta di più ha visto dilapidare un milione e settecentomila voti».
Hai scritto una lettera molto dura, al Foglio. Chiedendo sostanzialmente di rottamare i rottamatori.
«Mi è costata molto. Perché sono amico di Matteo Renzi e di Carlo Calenda, due persone che hanno capacità di leadership, generosità, carisma. In modi diversi. E scrivere che tutti e due devono fare un passo indietro mi è costato. Ho collaborato sia con Renzi sia con Calenda, sempre in modo positivo».
Eppure la sua conclusione è che hanno fallito l’occasione della vita.
«Certo è ridicolo aver fatto due partiti gemelli, che sostengono le stesse cose, usano le stesse parole sugli stessi temi e poi vanno divisi, contrapposti alle elezioni. Nella stessa famiglia c’era chi votava per Azione e chi per Stati Uniti d’Europa, e tutti votavano per le stesse idee, le stesse ragioni».
Dunque, dimissioni di entrambi. E poi si riparte?
«Insistiamo molto con il merito? E allora quando si registra un insuccesso di questo genere si dovrebbe per primi prendere atto e agire con coerenza. Facendo un passo indietro. Se la Meloni avesse preso un punto percentuale meno delle elezioni politiche, tutti in coro ne avrebbero chiesto le dimissioni. E allora la stessa regola deve potersi applicare ai leader che perdono».
Le rimproverano di non aver voluto distinguere le responsabilità di Renzi e di Calenda…
«Volutamente. Il problema è voltare pagina. Mi scrivono mail in cui mi rimproverano di non aver precisato i dettagli, la cronistoria, le vicende… non voglio entrare nel merito, cerchiamo di capirci. Perché se continuiamo con le polemiche restrospettive, ricadiamo nella stessa situazione da cui dico che bisogna uscire».
Invita a un bagno di realtà, quindi.
«E purtroppo questo scontro di personalità ha lasciato dietro di sé dei malumori e dei livori giganteschi. Tifoserie da stadio. A questo punto nessuno dei due, né Renzi né Calenda, può essere il federatore di una nuova realtà. Bisogna sgomberare il campo dal passato e ricominciare da capo».
Qual è il percorso?
«Chiederei le dimissioni dei due. Le dimissioni. Non la promessa di dimettersi. Le dimissioni. L’affidamento a qualcuno di una reggenza, per la quale sceglierei dei pontieri, dei personaggi che hanno cercato di unire e non di dividere. E proverei a rimettere il discorso sulla buona strada. Ci vorrà del tempo, perché sento in giro troppo malumore. Serviranno molti mesi e forse anni».
Davanti al bipolarismo, una tendenza che sembra inarrestabile, i riformisti dovranno scegliere da che parte stare?
«Ci sono fasi che vanno e vengono. Avevo previsto che Meloni avesse preso qualcosa in più delle politiche. Schlein ha fatto come nel judo: ha usato come forza la forza dell’avversaria. Più Meloni diventa forte, più diventa forte anche lei. Si trova però a guidare un campo largo con divisioni profondissime e comunque quello che non li divide è qualcosa che non mi trova per niente d’accordo. Tutto basato sulla spesa pubblica, sullo stato assistenziale. Sulla difesa del bonus 110%. L’Italia ha bisogno di puntare prima di tutto sulla crescita economica».
Una prospettiva liberale, insomma.
«La crescita è tutto. Fino a adesso abbiamo avuto l’assistenza della Bce e dell’Unione Europea, ma con il vento che tira in Europa non è detto che la avremo ancora. Serve la crescita, e per almeno tre motivi: per creare lavoro, per redistribuire la ricchezza e per ridurre il debito pubblico. Ecco le priorità su cui una forza riformatrice e liberale dovrebbe puntare».
Quel 51 % di elettori che non va più a votare, cosa ci dice?
«Che non esistono più differenze marcate tra le forze politiche. Che al netto degli argomenti di colore e di bandiera, tutti i partiti hanno una postura simile, programmi che differiscono per pochi punti ma che non segnano, per gli italiani, scelte esistenziali, drammatiche e esiziali come quelle che segnavano la vita politica di quando ero ragazzo».
Il problema è proprio questo, c’è bisogno dei riformisti per fare una rivoluzione, come diceva Gobetti…
«L’Italia va liberata. Il Paese ha un sistema bloccato, burocratico fino all’eccesso, con decine di adempimenti e di pastoie che rendono tutto troppo lento, troppo farraginoso».
Serve un leader nuovo, per un progetto nuovo.
«Le figure dei leader emergono, soprattutto quando c’è crisi. Ma serve tempo, siamo davanti a un processo che è iniziato. Devono calmarsi le acque, pacificarsi le tifoserie. E dal lavoro comune nasce sempre una figura di sintesi capace di guidare la svolta».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.