Tonino Guerra, burbero e dolce insieme, era il grande patriarca di Pennabilli, paesino di tremila abitanti arroccato nell’Alta Valmarecchia in provincia di Rimini. Lì, in una solida casa di pietra viva, dove andai a trovarlo prima della sua morte il 21 marzo del 2012, si era rintanato: scriveva, dipingeva, costruiva mobili che superano ogni fantasia, impartiva lezioni a studenti che volevano diventare sceneggiatori. Chi meglio di lui, che aveva firmato cento e passa film: con Federico Fellini fantastiche metafore (Amarcord, E la nave va); con Michelangelo Antonioni le crisi esistenziali di una società che si trasforma e smarrisce (L’eclisse, Blow up, L’avventura, Deserto rosso, Zabriskie Point); con Francesco Rosi denunce morali e politiche essenziali per comprendere cosa sono stati gli anni che ci siamo lasciati alle spalle (Uomini contro, Il caso Mattei, Cadaveri eccellenti).

Nato a Sant’Arcangelo di Romagna il 16 marzo del 1920, quarto di quattro figli. Studia, come tanti: magistrali, poi l’università, facoltà di Pedagogia. C’è la guerra. I fascisti non gli piacciono, e lui non piace a loro. Lo arrestano; prima lo rinchiudono nel campo di Fossoli, poi viene deportato in Germania, nel campo di Troisdorf: «Mi ritrovo con alcuni romagnoli, la sera mi chiedono di recitare qualcosa in dialetto. Allora comincio a scrivere poesie in romagnolo». Sa a memoria i Sonetti di Olindo Guerrini, li recita ai compagni di prigionia per alleviare angoscia e nostalgia. Poi si inventa le sue poesie. Un compagno le trascrive e conserva. Nasce l’autore de I bu e di tante altre successive raccolte.
Dal logoro taccuino segnato dal tempo estraggo alcuni pensieri che mi disse quando lo andai a trovare.

Rimini: «Per me, da ragazzo, era una città lontanissima. Io sono nato a dieci chilometri da Rimini, a Sant’Arcangelo di Romagna. Prima di partire per Roma, quei dieci chilometri erano lo spazio più grande che uno potesse fare. Un santarcangiolese andava a Rimini per il dentista, perché aveva mal di pancia… O per prendere il treno, che poi doveva fare un lungo viaggio… Elio Petri, che era venuto a trovarmi da Roma, dovevamo discutere di un suo film, viene con una macchina verde, e a un certo punto dice: andiamo a prendere un caffè a Rimini. Il caffè a Rimini? Dieci chilometri per andare a prendere il caffè? Ma Tonino, fa lui, cosa vuoi che siano dieci chilometri? Mi dispiace, gli dico, non posso venire, è più forte di me. Ma dico, sei matto?, fa lui. E io: no, non vengo. Non posso dire: sono andato a Rimini a prendere il caffè. Ecco, questo per dire che quei dieci chilometri erano, e continuano restare per me una cosa davvero grande, l’eternità. Per andare a Mosca, cosa vuoi, prendi un aereo, in tre ore ci sei. Ma andare a Rimini, quei dieci chilometri. Mi sono rifiutato».

Il rapporto con le donne: «Adoperavamo gli occhi. Per esempio, l’occhio che oggi è tanto adoperato perché serve a vedere le immagini di quell’invedibile televisione che c’è, allora serviva per comunicare a una donna che passava qualcosa di molto forte. Una cosa che ho trovato solo in Sicilia. Una volta ero lì con Antonioni, ci invitano a una casa di nobili, e c’era una ragazza che parlava di un film di Alberto Sordi che aveva visto a Catania. Parlava, ma non ci guardava mai negli occhi. Questa ragazza scambiava solo qualche occhiata col padre, o con la madre del fidanzato, che era lì. Durante il pranzo c’è stato un momento che i miei occhi si sono incontrati con quelli della ragazza; e mi sono cominciate a tremare le gambe. Dopo ho detto a Michelangelo: senti, per caso, ti è capitato. Michelangelo mi interrompe subito: lo sguardo di quella ragazza. Anche lui era rimasto folgorato. Ecco: anche a guardare una donna ci vuole allenamento. Bisogna trasferire agli occhi quello che si vuol dire a una donna. Io ce l’ho con Barnard: invece di pensare al cuore e a come trapiantarlo, doveva pensare a qualcos’altro…».

Quando si era giovani: «C’erano delle cose sgradevoli. Non c’erano molte comodità: il bagno si faceva solo il sabato, nei bagni pubblici, vicino all’ospedale. Il senso della pulizia e dell’acqua erano un po’ scarsi. Ma erano anche stagioni di grande felicità, perché eravamo pieni di modestia. Però c’era poesia. Adesso siamo diventati dei robot. Si manca di spiritualità. Una volta c’erano le veglie nelle stalle, gli incontri. C’era il senso della neve, magari la guardavi dalla finestra; e pensavi: io sono a letto, riparato, mentre gli altri sono per strada. C’erano i carrettieri, il gioco delle bocce, mio padre che faceva fatica a piegarsi per allacciarsi le scarpe, oppure non metteva la giacca perché non riusciva a infilarsela…C’erano i gatti per le strade, i pesci da dare ai gatti. Un mondo che aveva delle cose belle; soprattutto c’era una grazia negli incontri, nel dire: buongiorno…Un calore…Ora se non hai due milioni sugli occhi nessuno ti guarda. Fai caso alle televisioni: la speranza della gente consiste nel vincere alle lotterie. Oppure ci sono quaranta programmi al giorno sui viaggi. Ti faccio vedere quel posto, o quell’altro. Lotterie e viaggi, viaggi e lotterie. Non so come sarebbe bello se anche la tv di stato diventasse poverissima. Una tv che non fa pubblicità, che dice: moriamo tutti di fame…Vorrei vedere che cosa succede…In questo momento non abbiamo nulla che ci aiuti a vivere e a voler bene agli altri. In Amarcord l’abbiamo raccontato quel mondo».

La Romagna: «È piena di storia. Qui hanno origine grandi famiglie, come i Montefeltro, i Malatesta. È un luogo curioso, questo. La prima cosa che ho fatto a Pennabilli è l’orto dei frutti dimenticati: una raccolta di un’ottantina di frutti che stavano scomparendo, come un certo tipo di mele, nessuno ormai le piantava più. Qui si cerca di salvarli. Oggi la frutta che mangi sembra siano saponette; noi siamo più abituati a quell’intensità di sapori che c’era una volta».
Il gioco della memoria: «Una volta Cesare Zavattini mi racconta: Tonino, bisogna guardare tutto, una mosca che cammina, un cane, un uomo, senti una frase in trattoria. Le cose magiche che sono intorno a noi: il colore di un albero, una melodia, la malinconia di un uomo. Ho cercato di farne tesoro. Una volta ero ancora a letto. Sotto il mio appartamento c’è un caffè, saranno state le quattro, arrivano le pescivendole, quelle che piacevano tanto a Fellini con il sedere diciamo abbastanza importante; prendono il cappuccino, parlano; a un certo punto una dice: “A Pechino fa la neve”. Quella frase mi ha colpito. Chissà perché l’ha detto? Come l’ha saputo, da chi? Quando si è trattato di trovare il nome a una mia commedia, quella frase viene fuori. Insomma il suggerimento di Zavattini, che è anche il mio: leggere, prendere appunti, ascoltare, le cose vengono dalle situazioni più impensate».

Il lavoro di sceneggiatore: «A Siviglia, con Rosi, per la Carmen. Dobbiamo tornare la mattina presto in treno. La sera prima c’è stata la grande processione per la Madonna di Siviglia: uno spettacolo stupendo, con tutti i carri pieni di candele. La mattina siamo per strada, è una magia, le strade sono bianche, coperte dalla cera delle candele. Un’immagine fantastica; queste immagini le raccolgo, sono i miei pizzini. Faccio pochissimo: parlo, dico delle cose, lascio che sia il regista a decidere se quello che dico può servire o meno. I registi con cui ho collaborato prendono dei brandelli di me, e questi brandelli nascono sempre dalla poesia».

Federico Fellini: «Uno degli incontri più importanti della mia vita: un incontro nato dalla stima e dall’interesse di Federico per le mie poesie. Ero a Roma. I primi anni è stata dura, era difficile inserirsi, ho anche fatto la fame. Federico mi ha sempre aiutato, un rapporto straordinario. Era una montagna di fantasia, buono, generoso, aiutava tutti. Si parla molto dei suoi film, poco della sua solitudine, del suo incantarsi davanti a un disegno, ai fumetti che amava. Sfuggiva una realtà che poi raccontava con tanta profondità. Amava la sua terra, la Romagna; eppure in Romagna non ha mai girato un metro di pellicola. Il suo cinema affondava nella sua memoria, nei suoi film c’è l’odore e il sapore della Romagna. Il lavoro con lui era di grande rispetto e amicizia».
Curiosità di poeta: «Sempre. Fino all’ultimo, fino alla morte!».