Mentre si avvicina la data del 12 giugno, in occasione della quale il popolo italiano è chiamato a esprimersi su cinque quesiti referendari in materia di giustizia, molte persone, amici, parenti, conoscenti mi chiedono, con notevole sconcerto, cosa devono votare, confermando così che il dibattito intorno a questo referendum è molto, troppo ridotto. Poiché più avanzo nell’età più mi faccio dispettoso (bonariamente), già solo per questa insoffribile coltre di silenzio inviterei tutti a correre a votare e a votare cinque volte sì (a ciò aggiungasi che produce in me dispetto, qualsiasi cosa dica, la Littizzetto).

Ma queste brevi considerazioni non vogliono essere un invito al sì o al no, invito che esigerebbe uno schieramento netto e vigoroso che mi priva del codice cui cerco di attenermi maggiormente: l’amore per le sfumature. Piuttosto, come in tante cose del mondo postmoderno, anche i quesiti referendari dimostrano che la vita politica e sociale del XXI secolo, in Italia almeno, e certamente, è molto confusa e si alimenta di meccanismi dagli esiti del tutto inaspettati, collegati sistematicamente a poderose eterogenesi dei fini. La giustizia è un settore per il quale i nodi essenziali, conosciuti da tutti gli operatori, così come avviene nella scuola e nella sanità, sono accuratamente elusi. Le storture, anche importanti, che registriamo, vorrebbero essere raddrizzate (ma poi, davvero lo si vuole?) con mezzi non tanto inadeguati, quanto del tutto eccentrici rispetto ai fini. In questa prospettiva s’inscrive il terzo quesito, che porterebbe, di fatto, alla separazione delle carriere, rispettivamente, di giudici (organi terzi) e pubblici ministeri (pubblica accusa: dunque, benché pubblica, parte).

Questo quesito è animato dalla convinzione che lo scambio di funzioni durante la carriera agevoli rapporti tra giudice e parte pubblica tali da minare l’imparzialità del giudizio, a discapito della difesa dell’imputato. Lo capisco, intuitivamente anche io la penserei così (l’ho pensata così per molti anni). Ma il vero problema, in Italia, è che il pubblico ministero sta diventando sempre più un corpo estraneo alla giurisdizione, cioè un potere acefalo, anche dentro e rispetto all’ordine giudiziario: ciò è spaventoso, ed è il nodo dei nodi. Accuratamente eluso. Il valore del quesito allora è provocatorio: se tu PM sei diventato qualcosa di diverso dal magistrato come delineato dalla Costituzione (e dal codice di rito vigente), allora fatti la tua carriera senza poter passare, negli anni, dall’altra parte (quella del giudice che decide il processo). Ma non illudiamoci che sia questa la risposta al nodo…anzi! Altra ipotesi di eccedenza del mezzo rispetto al fine riguarda il secondo quesito, che vuole limitare l’utilizzo della custodia cautelare: l’Italia è un paese in cui un altissimo tasso di illegalità e impunità è accompagnato dall’uso ultroneo della misura cautelare detentiva (con ciò che consegue in termini di ingiusta detenzione e indennizzi). Privare un tessuto sociale come il nostro di quel mezzo cautelare forse è troppo. Ma anche qui, capisco lo spirito referendario: se voi magistrati ne fate un uso eccessivo e distorto, meglio togliervi l’arma, costi quel che costi.

Il primo quesito è invece molto saggio, e dimostra – vedete un po’ le incoerenze dei tempi – che ci si vuole affidare al giudice: meglio che il divieto di candidarsi ed essere eletto in caso di condanna definitiva superiore a due anni non sia stabilito dalla legge una volta e per tutte, ma venga calibrato caso per caso dal giudice penale al momento dell’irrogazione della pena. Il quarto quesito, dal canto suo, riequilibra la partita: per valutare i magistrati, richiede il voto anche dell’avvocatura. Non sono contrario, in linea di principio. Ma dobbiamo essere consci che quest’arma che sembra così piana e trasparente può esser foriera di situazioni altamente opache, che però possono essere monitorate adeguatamente, a mio avviso. Dulcis in fundo: per spezzare il gioco delle correnti della magistratura, il quinto quesito consente al magistrato di candidarsi per il CSM anche senza raccogliere le firme richieste dalla legge vigente. Un passo piccolo, simbolico, se volete, che non posso che apprezzare: ma per spezzare le correnti, ci vorrebbe una decisione politica.

Temo che, a occhio e croce, la politica e le correnti hanno celebrato nozze più intangibili del matrimonio sacramentale del catechismo cattolico. Mi direte: ma allora cosa bisogna votare il 12 giugno? Io penso che la presenza e il voto del sì al referendum del 12 giugno siano del tutto ideologici, nel senso nobile del termine: vogliono essere un segnale di totale insofferenza per gli assetti della costituzione materiale della magistratura, in sé e rispetto agli altri poteri dello Stato. E forse qui bisogna esser netti davvero: separare gli insofferenti che non ne possono più, dagli ignavi acquattati beatamente nello status quo in via di inesorabile consolidamento.