Il voto del 12 giugno
Viviamo in una Repubblica accusatoria ma sui Referendum la politica resta zitta
Rimpiangere De Mita. Ma perchè pure Gava, non ci formalizziamo. E che dire poi di un Gerardo Chiaromonte, lui sì, meridionalista e garantista coi galloni. In pratica rimpiangiamo qualunque politico campano che avesse un profilo riconosciuto di livello nazionale e capacità, e volontà, di cimentarsi non solo nella gestione ma anche nella costruzione delle politiche e nelle visioni. È mai possibile che nella nella terza città e area metropolitana d’Italia, nella terza regione d’Italia, non si riesca ad avere un minimo di dibattito pubblico su temi nazionali? Che la politica si sia schiacciata così grottescamente sull’amministrazione tanto che il tema dei valori e degli equilibri costituzionali non interessi alla classe politica?
Dei prossimi referendum, quesiti tutti riguardanti la giustizia si parla solo tra addetti ai lavori, nei sindacati forensi o nelle associazioni dei magistrati. Se ne parla un po’ perfino tra i cittadini. Ma i partiti campani, o quel che è rimasto di loro, sono totalmente estranei a questo dibattito. Eppure, i quesiti toccano in alcuni gangli fondamentali il tema dei rapporti tra politica e magistratura. Eppure, veniamo da trent’anni di una repubblica poco meno che giudiziaria, anzi accusatoria, in cui decine di carriere di politici sono state distrutte da inchieste finite nel nulla. E con il sistema attuale, basato sulle elezioni dirette, una carriera spezzata per nulla è anche una scelta democratica azzoppata, sospesa, buttata al macero. Una collettività locale rimasta senza voce, un filo spezzato tra istituzioni e società. A cui spesso si aggiunge il prezzo del dubbio, del sospetto, del discredito.
I referendum del 12 giugno parlano molto della nostra realtà: passarella tra le funzioni di p.m. e giudice, limiti alla custodia cautelare, sospensione automatica dalla carica elettiva anche solo per una condanna di primo grado e incandidabilità per condanne definitive per reati contro la p.a. e di stampo mafioso, valutazione dei magistrati. Tutti i quesiti ci portano a vicende napoletane e campane, dal caso Tortora in poi. Si può dire tutto quello che si vuole sul merito dei quesiti referendari, ma non che meritino il silenzio. Non certo che siano questioni microsettoriali, di poco momento.
Tutti i quesiti hanno a che fare con la giustizia e hanno tutti un taglio garantistico. È una tornata fortemente politica, al di là del merito. Ci sono delle tecnicalità e dei limiti dovuti allo strumento. Ma è certa che il 12 giugno, comunque andrà, ci sarà un grande dato politico di cui discutere. Per questa sarebbe importante andare a votare. I partiti campani sono divisi tra astensionismo e indifferenza. Una volta i dirigenti politici animavano i dibattiti. Oggi mettono sordine, salvo che non arrivi un ordine di scuderia. E il tanto civismo che ci ha invaso elezione dopo elezione si mostra per quello che è: una palestra di qualunquismo, indifferentismo civile, trasformismo. Incapace di darsi dei contenuti politici.
È davvero grave che in una Regione dove i rapporti tra politica e giustizia sono così tormentati, dove c’è una tradizione giuridica tra le più prestigiose d’Italia, dove la carcerazione preventiva riempie le carceri, dove le indagini di taluni pubblici ministeri hanno fatto registrare dei colossali flop, e altro ancora, che non si trovi la motivazione per affrontare una discussione tutta politica su questi temi. I più scafati diranno che non sono temi da referendum. Ma non lo sono neanche da parlamento, visto che il parlamento elude da decenni questioni o fornisce pannicelli caldi. E allora che fare? I referendum diventano fatti simbolicamente importanti per mettere in agenda uno dei grandi fattori di inciviltà del nostro ordinamento giuridico: il funzionamento del servizio della giustizia. Sospeso tra inefficienza e risposte emergenziali. Ma è silenzio tombale.
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