Questa volta non sarebbe bastata l’immagine televisiva di Antonio Di Pietro e gli altri pm con i visi stanchi e la barba lunga. E neanche il famoso comizio nell’aula magna di Saverio Borrelli che invitava le toghe a “resistere” sulla linea del Piave. Questa volta il corpo dei magistrati è parso più dalla parte del “non ci sto” del politico Oscar Luigi Scalfaro e il “non ci lasceremo processare” di Aldo Moro, che non da quella dell’intoccabile Partito delle procure. Hanno lavorato. In pochi hanno incrociato le braccia e a Milano, nonostante la presenza del capo del sindacato unico, è bastata un’auletta per contenere la manifestazione delle cinquanta toghe presenti. Non è importante la percentuale in numeri dell’adesione allo sciopero indetto lunedì scorso dall’Anm.

Per noi che abbiamo manifestato tanto da ragazzi, sognando e prefigurando un mondo diverso, è sempre stata importante la “cifra politica”, più che quella numerica della partecipazione. La capacità di segnare una presenza, di incidere nel corpo vivo di un problema. Questa capacità il sindacato del presidente Giuseppe Santalucia non l’ha avuta. Tanto che lo stesso dirigente ha dovuto rinchiudere in una bolla di tipo sentimentale il fallimento, parlando dello sciopero come di un grande “atto di generosità” delle toghe nei confronti dei cittadini. Ma del pane dei diritti hanno bisogno i cittadini, non delle brioches regali di un corpo togato sempre più lontano e intoccabile. Una corporazione che sempre di più parla a se stessa piuttosto che agli altri. E la prima conseguenza negativa per il sindacato unico dei magistrati sarà il fatto che, quando il 12 giugno gli elettori saranno chiamati a votare i referendum sulla giustizia, ci sarà qualcuno a ricordare loro che, contro una riforma che ne è la pallida sembianza ma ne ha alcuni simili contenuti, la casta si è chiusa a riccio. E si è in parte rifiutata, per un giorno, di amministrare la giustizia in nome del popolo italiano.

Ma ha pensato soprattutto ai propri, di diritti. Senza mai accennare ai doveri. Sarà dura spiegare per esempio, che coloro che ogni giorno sono chiamati nei tribunali a giudicare gli altri, non tollerano nessuna valutazione su di sé. Perché ci sarà qualcuno, nel corso della campagna referendaria, a ricordare qualche numero, che in questo caso è fondamentale: per esempio che per la responsabilità disciplinare dei magistrati viene archiviato (dai colleghi) il 90% delle denunce, e per quella civile si arriva alla condanna nell’1,2% dei casi. Non saranno chiamati a votare sulla responsabilità delle toghe, è vero, la decisione politica della Consulta lo ha vietato. Ma capiranno, i cittadini, che la semplice proposta che esista un fascicolo in cui la vita professionale di ogni singolo pubblico ministero o giudice sia esaminata (dai colleghi, non dai brutti e cattivi politici) non è offensiva, né un affronto personale, ma urgente e indispensabile. Perché chiunque abbia frequentato un palazzo di giustizia, chiunque abbia incontrato un magistrato in sede civile o penale, sa quanta sofferenza abbia poi portato a casa, indipendentemente da ogni singolo risultato processuale.

E non rassicurano certe dichiarazioni. Senza entrare nella psicologia di ogni portatore di toga, vien da chiedersi, ma non hanno ancora capito? Scusandoci per il paragone, alcuni di loro sembrano un po’ gli alpini ubriachi, stupiti perché alle donne italiane non vanno giù le pacche sul sedere e neanche i complimenti pesanti. Non se ne può più di sentir dire che ogni riforma, per quanto contenuta come quella proposta dalla ministra Cartabia, sarebbe un attentato all’indipendenza e autonomia della magistratura. Senza che mai qualcuno spieghi che cosa vuol dire questa frase. Non è questo che interessa a chi ha l’avventura (e spesso la sventura) di ritrovarsi al cospetto di un magistrato. Ci si aspetterebbe piuttosto una rivendicazione di imparzialità, ma nessuno ne parla mai. E anche di lontananza dalla politica, perché la mescolanza dei ruoli, questo si che è visto con sospetto.

E la fine delle “porte girevoli” è gradita a tutti. Perché non capiti più di ritrovarsi a essere giudicati in tribunale da colui che fu un ex avversario politico in Parlamento. E dovrebbe essere più cauto Nello Rossi, direttore della rivista “Quale giustizia” ed ex leader di Magistratura democratica, quando afferma di essere, per fatto generazionale, uno di quelli che hanno sempre tenuto insieme l’attività professionale con quella associativa. Una vera rivendicazione politica. Cosa che di questi tempi, dopo le rivelazioni di Luca Palamara, non è proprio gradita ai più. Perché nessuno ha proprio creduto che l’ex presidente della Anm fosse un caso isolato, una bestia nera immolata la quale le acque si sarebbero placidamente richiuse. Il “calati giunco che passa la piena”, non funziona proprio più. Non ha funzionato per la politica, dopo lo sconquasso del 1992. Mestamente se ne rende conto lo stesso Santalucia, quando dice “Anche per l’Anm c’è stata una stagione delle vacche grasse. Ora è quella delle vacche magre”.

Ma che cosa erano queste “vacche grasse”? E quali forme di dimagrimento si potrebbero raggiungere con la riforma Cartabia e con i referendum? Il ruolo politico di pubblici ministeri cui bastava andare in televisione per dire che senza manette loro non potevano lavorare e poi solo per questo godevano del pubblico entusiasmo, era vacca grassa. Lasciar marcire in carcere gli innocenti non ancora processati e liberarli solo quando, e se, accusavano qualcun altro, era vacca grassa. Distruggere interi partiti con la complicità di qualche cronista giudiziario era vacca grassa. Spendere milioni in intercettazioni e poi magari “sbagliarne” l’interpretazione era vacca grassa. Fingere di applicare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale per tenere in caldo i fascicoli degli amici politici fino ad accompagnarli alla prescrizione, era vacca grassa. Complicità tra chi ti accusa e chi ti deve giudicare, era vacca grassa. Vedere il mondo della politica, annientato da trent’anni di dominio incontrollabile dell’unica vera casta, ancora prono ai piedi dei pubblici ministeri è stato, fino a poco tempo fa, la Grande Vacca Grassa di un’epoca intera.

Quali sono le diete che potranno portare a una vita normale l’amministrazione della giustizia e il suo rapporto con la politica e con la società se il Senato approverà la legge Cartabia e se il 12 giugno il cinquanta più uno (qui la percentuale è fondamentale) dei cittadini andrà alle urne e se la maggioranza di loro voterà SI ai referendum? Piccola dieta nella prima ipotesi, almeno perché si faccia rientrare in parte il ruolo del pm nell’alveo dei Paesi di democrazia occidentale, con la riduzione dei passaggi da accusatore a giudice e con la possibilità di valutarne l’attività. Significativo dimagrimento se si voteranno i referendum: per una separazione definitiva tra i due ruoli, per una svolta sulla custodia cautelare, sempre ricordando che significa carcere per gli innocenti secondo la Costituzione. Teniamo fermi almeno questi punti, per ora. Nella speranza che un domani non esistano più scandali come il processo “Trattativa Stato-mafia” o quello milanese al governatore Attilio Fontana. E neanche che Giancarlo Pittelli e i tanti nella stessa situazione, siano agli arresti da anni senza aver avuto una sentenza.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.