Dunque lo sciopero dei magistrati ci sarà, fra due giorni, in un bel lunedì che si appoggia con facilità al weekend (visto che è improvvisamente scoppiata l’estate) , secondo una certa tradizione dei sindacati quando non si sentono sicuri dell’adesione. Anche se in genere questi preferiscono il venerdì, come del resto anche gli studenti. Vedremo se davvero ci sarà la stessa massiccia adesione dei bei tempi in cui si protestava contro il nemico numero uno, Silvio Berlusconi. Incomprensibile, questa chiamata alle armi da parte del sindacato delle toghe, nei confronti di una riforma, voluta dalla ministra Cartabia, che prima di tutto non esiste, perché è stata approvata da un solo ramo del Parlamento. E poi perché introduce solo piccoli e timidissimi cambiamenti, sia sul Csm che sull’ordinamento giudiziario.

Sembra quasi una questione di principio, quindi politica, quella agitata in queste ultime settimane dai vertici dell’Anm, ma anche dal Csm e da una serie di magistrati molto ascoltati dai quotidiani che vivono in simbiosi con le Procure. Già, proprio l’intoccabile Partito delle procure, proprio la difesa di quel pm battagliero, così potente e irresponsabile nel nostro ordinamento come non è in nessun altro Paese al mondo, è al centro della protesta. Non certo per l’ingarbugliata riforma del sistema elettorale del Csm, i magistrati scendono in piazza, visto che l’unica vera svolta sarebbe stata determinata da quel sorteggio che non hanno voluto neanche il Governo e la gran parte dei partiti. Ma due sono i punti fondamentali di lamentela. Il primo riguarda la riduzione a uno dei passaggi tra la funzione requirente e quella giudicante.

L’ altro è il fascicolo delle performance, che finalmente dovrebbe mettere in luce non solo la produttività, cioè la quantità di provvedimenti adottati da ogni magistrato, ma soprattutto la qualità dell’attività giurisdizionale. Non tanto per dare una bocciatura a chi ha condannato in primo grado imputati che poi sono stati assolti in appello. Ma soprattutto per mettere in luce quel che ormai si sta disvelando quasi ogni giorno, con la grancassa su iniziative che paiono da subito come Grandi: grande blitz, grande inchiesta, grande nomignolo, grande numero di imputati e arrestati, grande dispendio di forze e denaro per intercettazioni. E poi finiscono in nulla, magari dopo anni e anni, con imprese e famiglie andate all’aria, beni confiscati di società ormai fallite, persone distrutte dal carcere e dalla pubblica gogna.

Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, da Milano fino alla Calabria e alla Sicilia, passando per Roma e la vana ricerca di “Mafia Capitale” piuttosto che “ ’Ndrangheta Capitale”. E nessuno ne risponde mai, visto che ogni anno lo Stato deve risarcire le ingiuste detenzioni. Ma la pervicacia pare cucita addosso alle toghe, qualunque ruolo svolgano, perché la casta prevale sempre. Non demorde l’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, pensionato molto vivace, che quando non è intervistato scrive direttamente su diversi quotidiani. È molto sicuro di sé un altro ex procuratore “antimafia”, Nino Di Matteo, oggi membro del Csm di prossima scadenza, che in una lunga e interessante chiacchierata con il sociologo Luigi Manconi su Repubblica, non cede un millimetro di territorio conquistato negli ultimi trent’anni. Anche se su almeno due punti finisce per confermare quanto meno la necessità di un’analisi precisa sui metodi di indagine e di costruzione dei processi, in particolare nelle Regioni del sud e in nome dell’Antimafia militante.

La prima questione è quella di un pm combattente che si presenta armi in pugno sotto l’ombrello del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale (in contrasto palese con il sistema processuale di tipo accusatorio), che finisce con il privilegiare il fenomeno e il contesto rispetto al singolo fatto criminoso. È in questo tipo di cultura che nasce anche la giurisprudenza sul “concorso esterno in associazione mafiosa”. Di Matteo tiene il punto: “È indubbio che lo scopo dell’azione penale debba essere quello di provare i reati. Ma è altrettanto indubbio che alcuni delitti sono espressione di sistemi criminali più complessi”. Ma insomma, resta il fatto che tutto il castello accusatorio, costruito nel corso di anni e anni, che ha portato al processo “Trattativa tra Stato e mafia” è crollato miseramente. E anche se il consigliere Di Matteo, che fu accanito accusatore in quel processo, dice di non sentirsi sconfitto, crediamo sia diritto dei cittadini, nel cui nome si dovrebbe fare giustizia, guardare nel suo fascicolo per sapere come e perché siano stati sperperati tanti soldi e accusati tanti innocenti.

Anche perché, e veniamo al secondo punto inquietante dell’intervista, ci pare che l’ex procuratore, quasi con noncuranza, quasi fosse normale, dice che “la mancata condanna di alcuni imputati non significa che gli alti gradi dei Ros dei carabinieri non siano stati autori di condotte anomale…”. Quindi, se non abbiamo capito male, le “condotte anomale” dei vertici dei carabinieri avrebbero giustificato anni di indagini, carcere e carriere distrutte anche se non erano reati, come ha stabilito una sentenza definitiva? Dottor Di Matteo, le dice niente il nome di Calogero Mannino? Qualcuno gli ha almeno chiesto scusa? L’altra bestia nera della riforma Cartabia è quella di una parziale separazione delle funzioni tra pm e giudici. Un altro affronto che le toghe vogliono cancellare con la manifestazione di lunedi prossimo. Il loro ritornello di sempre è quello della “cultura della giurisdizione”, quella dell’imparzialità che è imposta ai giudici e che apparterrebbe, secondo la vulgata dell’Anm, anche ai pubblici ministeri.

A parte il fatto che nessuno è in grado di citare casi in cui il pm abbia raccolto anche le prove in favore dell’accusato, vogliamo citare qualche esempio? Vogliamo parlare del processo Enel o di Mafia Capitale, piuttosto che del già citato “Trattativa”? Proprio in quest’ultimo, visto che lo stesso pm Di Matteo parla di “condotte anomale” dei dirigenti del Ros, non sarebbe stato suo divere cercare anche qualche indizio della loro innocenza, qualche spiegazione, invece di andare diritto sull’ipotesi che quei comportamenti fossero reati? Non possiamo pensare che separando le carriere, o almeno le funzioni come previsto dal referendum che andremo a votare il 12 giugno, o in subordine almeno quanto previsto dalla piccola riforma Cartabia, la situazione potrebbe essere peggiore di così.

Ve lo immaginate un procuratore “antimafia” che va alla ricerca di indizi o prove che possano scagionare Marcello Dell’Utri dal suo impegno “esterno” a sostegno di Cosa Nostra? O un sostituto dell’ufficio del procuratore Gratteri che si dia da fare in favore di Giancarlo Pittelli? Chiamata alle armi, dunque. Anche un po’ traballante, però, se il Presidente Giuseppe Santalucia e il direttivo del sindacato hanno sentito il bisogno di fare un appello all’unità della categoria nell’astensione dal lavoro. Cosa che in politica – e qui siamo in un contesto politico – significa debolezza e poca sicurezza sul risultato dell’iniziativa. Lunedi vedremo, qualche mormorio di dissenso si è già fatto sentire.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.