Chi, come me, è entrato in magistratura negli anni del Governo Berlusconi 2001-2006, è cresciuto nel dogma – dunque nell’asserzione indiscutibile, perché vera e da accettare a priori – dell’unità associativa dei magistrati italiani: uniti, in quegli anni, contro gli attentati alla legalità e ai presidi costituzionali dello status del magistrato. Unità che non impedì (o forse agevolò) il percorso della riforma Castelli/Mastella (a cavallo, infatti, dei Governi Berlusconi e Prodi) che quei presidi ha pesantemente insidiato. I dogmi, però, vanno bene nelle religioni in cui decidi di credere, in fondo si tratta di acquisire la felicità o l’eternità. Nella vita politica secolare vanno rifuggiti con determinazione.

L’unità associativa (della magistratura come di ogni altra associazione) è talvolta un bene. Talvolta, no. Un bene quando, di fronte a riforme legislative frutto di scelte politiche di un governo, è chiaramente identificabile un fattore capace di attentare allo Stato costituzionale di diritto. Un male, quando un fattore di tale specie è molto lontano dall’essere chiaramente leggibile. L’Anm ancora una volta sta invocando l’unità associativa, il fattore-nemico stavolta è la riforma (vocabolo forse eccessivo) varata dal Governo in carica, e ha indetto per il 16 maggio uno sciopero. Ma questa riforma è un fattore che attenta allo Stato costituzionale di diritto – nella parte che riguarda l’assetto dell’ordinamento giudiziario e dell’organo di autogoverno – secondo modalità agevolmente additabili senza ambiguità? Io penso di no.

La riforma, piuttosto, lascia insoddisfatti in tanti, magistrati e non, sotto due prospettive speculari: 1) vuole convincere che la meritocrazia entri in magistratura, con la pagella e misure simili, che si riveleranno largamente inutili; 2) lascia irrisolto il problema dei problemi: ma cos’è accaduto veramente con l’Hotel Champagne e come porvi rimedio in vista della (anche solo parziale) liberazione della magistratura dai pesanti meccanismi politico-associativi che la tengono in ostaggio? A lasciare delusi, allora, è il livello di conoscenza scarsissimo che la politica (con poche eccezioni) continua ad avere, colpevolmente, della magistratura italiana, della sua storia, dei suoi reali problemi, tenendo a mente che la giustizia non è fatta solo di alcune Procure cardine (Milano, Roma, Napoli). Quelle due prospettive speculari possono essere allargate: per un verso, la giustizia deve diventare efficiente, ma non può diventarlo burocratizzando il giudice (vi risultano aree burocratizzate che brillino per efficienza e spirito d’iniziativa nella risoluzione dei problemi, a partire dal deposito di una dichiarazione anticipata di trattamento fino alla gestione di una pratica di riscatto pensionistico?); per un altro verso, la magistratura vive, non solo in Italia (pensate alle vicende polacche degli ultimi anni), un mastodontico problema di forme effettive e idonee di rappresentatività.

Si tratta di prospettive che attengono all’unica cosa che conta, negli Stati di diritto, tanto più se dotati di una carta costituzionale com’è per l’Italia: che esista un giudice indipendente e imparziale. E allora: la riforma Cartabia non deve farci stracciare le vesti, tantomeno ai miei occhi giustifica uno sciopero. Ma sbaglia, e gravemente, nelle due prospettive di cui sopra: accentua la burocratizzazione e non aiuta a garantire alla magistratura un’elezione dei membri del proprio organo di autogoverno che lo tolga dal calcagno schiacciante delle correnti e lo restituisca all’ordine giudiziario disegnato dalla Costituzione. Questo deve essere chiaro ed è sacrosanto diritto della magistratura, come la Corte europea dei diritti dell’uomo insegna nella sua vasta giurisprudenza, dirlo a chiare lettere. Se tutto questo ha un minimo di fondamento, vi chiederei ora di avere un occhio un po’ più misericorde nei confronti dei magistrati italiani, almeno della cd. “base associativa”: essi vorrebbero far capire che la riforma non serve, anzi è dannosa, e però hanno un organo associativo, pur composto di molte persone di buona volontà, che continua a radicare la propria legittimazione su meccanismi di acquisizione del consenso che, al fondo, si sono rivelati malati, hanno inquinato il funzionamento del Csm, ogni giorno – anche se blandamente (ma a volte pesantemente) – rischiano di minare, e spesso minano, l’indipendenza del singolo magistrato, e sto parlando non dell’indipendenza dal potere politico, ma di quella del singolo magistrato rispetto alla magistratura, ai capi, ai direttivi, ai consiglieri del Csm e così via.

La situazione, per molti magistrati, è frustrante. Ed anche da ciò è nato il documento (che anche io ho sottoscritto pur essendo fuoriuscito due anni fa dall’Anm) “né con Cartabia né con l’Anm”: perché se lo sciopero deve essere il simulacro della difesa di facciata di un’indipendenza che ogni giorno rischia di essere minata dagli stessi meccanismi che sovraintendono all’associazione che quello sciopero proclama, allora non puoi e non vuoi scioperare. Perché ti senti preso in giro due volte. E ti senti pure profondamente solo. Il cittadino ha bisogno di un giudice indipendente e imparziale. Anche solo il sospetto che, a causa del funzionamento dell’organo di autogoverno e degli assetti dell’ordinamento giudiziario, questo potrebbe non accadere (e quanto emerse dopo l’Hotel Champagne qualche sospetto sistemico l’ha seminato dentro e fuori la magistratura, no?), quel sospetto deve essere rimosso. Ecco perché la riforma Cartabia non costituisce un attentato non ambiguamente identificabile all’indipendenza del magistrato: perché essa mi pare soltanto l’appendice minore, che si salda alla riforma Castelli/Mastella, di un più vasto attentato che è andato crescendo in trent’anni, anche e soprattutto a causa di connivenze gravissime tra potere politico e rappresentanza associativa della magistratura medesima, per il quale nessuno ha battuto ciglio, rispetto al quale nessuno oggi ha il coraggio di porre un reale rimedio.

Non puoi scioperare per la pagliuzza, quando per la trave sei rimasto zitto per anni e anni. Concludiamo da dove siamo partiti: probabilmente questo è il momento storico della dis-unità associativa, della dissociazione nazionale dei magistrati italiani, della crepa – dolorosa, perché in qualsiasi organo associativo tale sarebbe – che è necessario aprire nel dogma. Qualcosa si sta muovendo, forse: rotture del silenzio un tempo compatto, voci di libertà, rivendicazione del ruolo non certo salvifico, ma rilevantissimo, del magistrato indipendente e imparziale nel nostro Stato costituzionale di diritto dentro l’Unione europea e dentro la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.