E che sciopero sia. La decisione dell’Anm di invitare i magistrati ad astenersi dall’attività processuale per protestare contro la riforma dell’ordinamento giudiziario approvata dalla Camera dei deputati non può essere liquidata dall’alto delle contrapposte barricate come eversiva e in contrasto con il principio della separazione dei poteri. Alcune semplici considerazioni escludono che si possa impedire a un’organizzazione di categoria professionale di proclamare uno “sciopero”. L’astensione rientra nello statuto del rapporto di pubblico impiego che, per quanto peculiare, lega ciascun magistrato all’organizzazione giudiziaria cui appartiene. Discutere della legittimità di questo diritto vorrebbe dire collocare i giudici in una sorta di imprecisato e nebuloso empireo che ne dovrebbe mantenere intatta la purezza e renderli “diversi” da ogni altro impiegato dello Stato.

Non è cosi. L’intera magistratura costituisce certamente «un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (articolo 104 Costituzione), ma questo non toglie che la funzione giurisdizionale sia esercitata dai «magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario» (articolo 102). Un conto è la magistratura, intesa come complesso delle attribuzioni giurisdizionali, altro sono i singoli giudici il cui status è regolato da quell’ordinamento giudiziario che, ora, si vuole modificare in parti non marginali. Quindi proclamare un’astensione è del tutto legittimo e non c’è alcuna necessità di gridare allo sbrego costituzionale. Trattandosi, tuttavia, di una decisione “sindacale” i margini di discussione per i magistrati, anziché dilatarsi, si restringono e di molto. Uno sciopero che voglia contrastare questa o quella riforma processuale, questo o quel correttivo in tema di garanzie e di poteri delle parti nel processo non può, effettivamente, ritenersi conforme alle prerogative “sindacali” delle toghe. Non incidendo sul loro status professionale, ma sulle attribuzioni della giurisdizione nel suo complesso, è lecito dubitare che si possa scioperare contro il Parlamento o contro il Governo per iniziative legislative che intendessero assumere sull’assetto del potere giurisdizionale.

Quando, invece, le norme vengono intese come deteriori per le guarentigie e le prerogative professionali dei magistrati, ecco che il diritto di “sciopero” resta pienamente tutelato e si riespande. La distinzione, è chiaro, non ha alcun elemento di novità e trova fondamento – a esempio – nell’antica bipartizione tra scioperi politici e scioperi contrattuali, a secondo che la mobilitazione dei lavoratori contesti scelte generali di ampio respiro, con mere ricadute sulla condizione dei dipendenti, o abbia di mira puntuali rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro. Nel caso del prossimo 16 maggio al centro della contestazione delle toghe vi sono profili che sarebbe ingiusto non considerare come “contrattuali”. Il fascicolo di valutazione immagina di poter giungere a una sorta di controllo minuto e fine sull’attività, praticamente quotidiana, dei magistrati per poterne, poi, trarre giudizi con grande incidenza sulla carriera e sulla stessa progressione economica. Ha ragione chi sostiene che non esiste alcuna organizzazione pubblica o privata che pretenda di giungere a questo livello microscopico di controllo sui propri dipendenti e, quindi, l’Anm ha ben ragione di lamentarsene.

Certo difetta nel dibattito, come spesso accade, un confronto davvero leale e sincero. La magistratura – un plesso di poco più grande di un piccolo comune con qualche migliaio di abitanti – conosce perfettamente al proprio interno chi sono i neghittosi, gli incauti, gli sfaccendati e gli incapaci. Se le disposizioni esistenti in materia di valutazione di professionalità fossero applicate con sufficiente rigore e qualche dirigente di troppo non preferisse il quieto vivere piuttosto che esercitare il dovere di segnalare anomalie e disfunzioni, la bonifica della magistratura italiana dai danni che la affliggono sotto questo versante sarebbe immediata o quasi. Ma prevalgono logiche diverse. La temporaneità degli incarichi di dirigenza in senso lato (4 anni + 4 anni), la prospettiva, quindi, di un ritorno a essere collega tra colleghi, la necessità di evitare che nelle conventicole correntizie si parli male di questo o quel presidente, di questo o quel procuratore per la sua eccessiva severità (sabotando le prospettive di un ulteriore incarico) induce tanti, e non tutti ovvio, a un approccio flow verso queste delicate questioni.

Il punto vero è che in ogni struttura, si pensi a tutta la pubblica amministrazione civile e militare, la dirigenza non condivide con tutti i dipendenti uno statuto di regole comuni. Non esiste lì, come in magistratura, un semplice primus inter pares che attende provvisoriamente alla direzione e al controllo, ma la linea di demarcazione tra un dirigente o un ufficiale e la restante parte del personale è invalicabile ed irreversibile. Tra le toghe, per fortuna, non è così. La Costituzione, per fortuna, vieta gerarchie (articolo 107) perché esse avrebbero una pesante incidenza e influenza sulle decisioni giudiziarie. E, in questo campo vitale, i giudici devono essere soggetti soltanto alla legge (articolo 101). Le norme in approvazione, consapevoli di un certa omertà di casta, prevedono sanzioni e punizioni per i dirigenti che ometteranno, ancora, di segnalare disfunzioni e disservizi. Il nuovo fascicolo professionale dovrebbe, addirittura, bypassare questo intermittente e insufficiente controllo offrendo la possibilità di attingere all’opera omnia dei singoli magistrati che qualche errore e qualche pasticcio lo combinano sempre, spesso per carichi di lavoro insopportabili. E qui la questione si complica.

È lecito avere perplessità sul fatto che una corporazione che – di fatto – ha fallito nel controllo orizzontale rimesso alla dirigenza, possa praticare un esame imparziale e distaccato dell’enorme quantità di dati che si dovrebbero raccogliere ogni anno su ciascuna toga. A parte che non è chiaro chi dovrebbe controllare cosa e con quale autorevolezza e competenza dovrebbe segnalare le devianze nei provvedimenti adottati. A meno di voler presidiare ogni giudice con un poliziotto professionale, si profila il rischio del solito doppio binario di Sistemica memoria per cui si perdona agli amici e ai protetti e si puniscono i nemici e i deboli; e dal calderone dei dati si prende quel che serve o si scarta ciò che nuoce.