Il caso Borghi è un piccolo terremoto. Non istituzionale, ci mancherebbe. La politica l’ha derubricato subito a quel che è: l’uscita infelice di un influencer leghista che nella compagine di governo non ha alcun ruolo. E che prima di approdare in Parlamento aveva avuto come massima esperienza amministrativa quella di consigliere comunale a Como. Dove si è ricandidato nel 2022 senza venire eletto: i 77 voti che ha raccolto non erano purtroppo bastati. La sua richiesta di dimissioni del Presidente della Repubblica lascia, nel merito, il tempo che trova, ma un terremoto lo provoca comunque.

Tutto interno al centrodestra. «Se il presidente pensa davvero che la sovranità sia dell’Unione europea invece che dell’Italia, per coerenza dovrebbe dimettersi, perché la sua funzione non avrebbe più senso», aveva detto a margine delle celebrazioni del 2 giugno. C’è chi si chiede quale sia lo stato di salute della Lega, se i parlamentari del Carroccio negli ultimi sgoccioli di campagna elettorale si vedono costretti a sparare sempre più in alto per conquistare spazi di visibilità. L’effetto-Vannacci non si vede. La Lega starebbe soffrendo Forza Italia, che la scalza. Ed ecco i fuochi d’artificio del Carroccio. Proprio nei giorni in cui un pilastro della Lega, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, fa sapere di essere “disponibile” (leggasi: interessato) a un incarico europeo come commissario. Quel posto di che Paolo Gentiloni sta per liberare – gli Affari economici e monetari – farebbe gola al leghista anche in chiave di una sua emancipazione dalle secche salviniane. Ma torniamo al piccolo terremoto, tutto in casa centrodestra. Salvini ci mette una pezza che è peggio del buco: «Massimo rispetto per Mattarella. E da Giorgia Meloni non c’è stata nessuna telefonata».

Sarebbe grave, darebbe il segno di un gelo di Palazzo Chigi verso l’alleato leghista. La premier e il suo vicepremier hanno una consuetudine telefonica fatta di più contatti al giorno. «Sono pronto a mettere a disposizione i miei tabulati telefonici, se non mi credete». L’excusatio non petita (chi mai potrebbe andargli a guardare i tabulati?) malcela la tensione, palpabile. Volano gli stracci, che siano telefonici o no, poco cambia. «Dalle parole di Borghi noi siamo distinti e distanti», prende le distanze il presidente di Forza Italia, Antonio Tajani. Il ministro degli Esteri verbalizza senza fraintendimenti: «Degli attacchi di Borghi io non rispondo: bisognerebbe chiederne conto a chi fa gli attacchi. Per noi di Forza Italia non si possono tutelare gli italiani al di fuori dell’Unione Europea. Noi siamo una forza politica europeista, mi sento un patriota italiano e un patriota europeo».

Anche la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato La Russa (Fdi) è chiaro: «Sicuramente quella di Borghi è stata un’uscita inopportuna», dice provando a chiudere l’incidente. Da Giorgia Meloni, la difesa d’ufficio della coalizione usa toni istituzionali: «Io sono stata molto contenta che Salvini abbia chiarito perché era importante farlo particolarmente nella giornata del 2 giugno, secondo me un giorno in cui bisogna evitare il più possibile le polemiche».

Toni pacati, ma c’è da giurarci: nelle segrete stanze non l’avrà mandata a dire. E nelle more di una dichiarazione di apeasement, la conferma che una telefonata tra la premier e Salvini c’è stata. Per Pd, M5s e per il resto delle opposizioni il caso non è affatto chiuso. Riccardo Magi, Più Europa, aveva definito «eversivo» il tweet di Borghi. Il leader di Azione, Carlo Calenda, gli risponde pan per focaccia, con un tweet al vetriolo: «A Borghi diciamo lascia stare il presidente della Repubblica perché tecnicamente io ritengo tu non possa allacciargli nemmeno la scarpa sinistra». «La Presidente del Consiglio Meloni continua a rimanere colpevolmente in silenzio di fronte all’attacco del leader della Lega Salvini contro il Presidente Mattarella», viene sottolineato dal M5s.

E contro Borghi (Enrico), c’è anche l’altro Borghi (Claudio), senatore di Italia Viva: «Mi separa praticamente tutto da lui, tranne mezzo cognome (lui si chiama in realtà Borghi Aquilini): lui leghista, io riformista, lui no, euro io europeista federalista. Lui filorusso, io convinto atlantista, lui sovranista, io per gli Stati Uniti d’Europa. Questa volta, a mio giudizio, è andato decisamente oltre e anche dal punto di vista della destra contestare il Presidente della Repubblica il 2 giugno significa uno strappo verso l’anarchismo caro a Donald Trump». Complice questo nuovo cortocircuito nel centrodestra, l’aria di rimpasto dopo le elezioni europee si percepisce ormai nitidamente.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.