La ricorrenza
Come è nato il telefono, l’invenzione dell’italiano Antonio Meucci

Ho fatto sesso per telefono e mi sono beccato un’infezione all’orecchio. (Richard Lewis)
È la primavera dei popoli, il 1848. Mazzini e Garibaldi sono ancora amici. Il primo Giuseppe chiama il secondo a difendere la Repubblica Romana, da lui presieduta, dall’assalto delle truppe francesi inviate da Napoleone III che voleva reinsediare il Papa Re cacciato, Pio IX.
Dopo un’eroica resistenza, Garibaldi cede “alle preponderanti forze” nemiche e si incammina, carico di gloria e di sventura, verso l’ultima repubblica italica che ancora non avesse capitolato, quella di Venezia. Ma, braccato dalle bande al soldo degli Asburgo, lungo il percorso perde Anita incinta, il fido Ciceruacchio e molti compagni d’armi. Lui non vuole cedere a nessun costo, ma quando gli riferiscono che ormai sul ponte sventola bandiera bianca (quello di Arnaldo Fusinato, non quello di Franco Battiato) capisce che tutto è perduto… Per ora!
Fugge dall’Italia, si imbarca per le Americhe da cui è appena tornato, e alla fine ripara da un altro patriota mazziniano esule, per aiutarlo a fare candele.
Nonostante l’epica premessa risorgimentale, questa è la storia del candelaio. Candelaio e inventore: mentre il povero Peppino, masticando bile, sognava lo scoglio di Quarto, il candelaio lo lasciava ad impastare la cera calda e si ritirava nel suo laboratorio. In precedenza, quando stava ancora a Cuba, il candelaio era già riuscito a comunicare la voce da una stanza all’altra della sua casa, ma adesso voleva fare di più. Un apparecchio che permettesse di parlare da un capo all’altro degli Stati Uniti.
Forse anche grazie alla fiducia che riponeva nel biondo nizzardo, a cui poteva delegare la conduzione della sua modesta impresa, il candelaio riuscì a fare quello che si era riproposto, per quanto altri abbiano tentato di usurparne il merito.
Infatti, solo nel 2012 il congresso Usa, sotto la presidenza Obama, riparò al torto storico e sancì solennemente che la paternità dell’ “telettrofono”, attribuita per oltre un secolo allo scozzese americano Alexander Graham Bell, era del candelaio Antonio Meucci.
Troppo cacofonico per diventare popolare, il “telettrofono” fu contratto in “telefono”, apparecchio per il teletrasporto del suono. Quando la gente lo vide, o meglio, lo sentì, ne ricevette la stessa impressione che dal teletrasporto del dottor K, quando si fonde con la mosca dalla testa bianca.
Noi ormai siamo smaliziati e assuefatti, ma immaginate lo stupore a sentire la voce della nonna che chiama dall’altra parte della città, quando si era abituati a sentire a malapena i suoi strilli dal giardino di casa.
In Italia il telefono arriva a più riprese successive. Prima piccoli esperimenti locali e centraline in grado di smistare poche telefonate. Agli inizi del XX secolo le chiamate consistevano nel girare una manovella sporgente dal telefono per comunicare con l’operatore del centralino a cui dire il numero desiderato. L’operatore provvedeva quindi a collegare fisicamente, tramite dei cavi elettrici provvisti di spinotti, il chiamante col chiamato. La manovella era simile a quella con cui si mettevano in moto le prime auto. Ruotandola si azionava un piccolo generatore elettrico che attivava il collegamento. In seguito, i telefoni furono dotati di una batteria interna che sostituì il generatore elettrico e così la manovella scomparve.
Il passaggio seguente fu l’automazione del collegamento per le chiamate urbane. Il telefono fu quindi fornito di una rotella forata, il disco selettore, girando la quale si componevano una per volta le cifre del numero.
Finalmente, nel 1921, un secolo fa esatto, fu fondata la Sirti, Società Italiana Reti Telefoniche Interurbane per la posa dei cavi di collegamento tra i comuni. Si poteva così cominciare a telefonare in tutte le parti d’Italia, sebbene sempre con la mediazione di un operatore.
Fu questo il passaggio cruciale. Le telefonate cittadine erano una comodità, ma non avevano rivoluzionato le comunicazioni tra le persone. Telefonare a un amico, invece di andarlo a trovare, era più spesso una manifestazione di pigrizia, che una stringente necessità. Invece, poter comunicare -come si dice adesso “in tempo reale”- da Palermo a Milano, era un’altra tappa fondamentale dell’unificazione del paese, all’indomani dell’annessione dei territori riconquistati all’impero austro-ungarico e prima dell’inizio delle trasmissioni Rai nel 1954.
Finalmente nel 1971, si attivò il sistema detto di “teleselezione”. In pratica, il prefisso che permetteva di fare telefonate interurbane senza più l’assistenza del centralino.
Al principio i telefoni erano prevalentemente neri, molto pesanti e massicci, di un materiale che, come consistenza, somigliava più all’osso o all’avorio, che alla plastica cui siamo abituati oggi. Ma era tuttavia plastica, sebbene rigida, fragile, costosa, difficilmente plasmabile e non riciclabile (la stessa dei vecchi dischi a 78 giri, che si suonavano col grammofono). Qualcuno la ricorderà, si chiamava Bachelite, dal nome del suo inventore, Leo Baekeland, che la sintetizzò per la prima volta agli inizi del ‘900. Negli ultimi tempi i telefoni in Bachelite sono diventati oggetti di arredamento molto apprezzati e, sorprendentemente, funzionano ancora a meraviglia.
Volendo continuare con l’operazione nostalgia, possiamo ricordare anche l’evoluzione dei telefoni pubblici. Al principio si trovavano in negozi e locali. Per chiamare si chiedeva al gestore di collegarci col numero del destinatario. Per farsi chiamare, invece, si prenotava, fissando un appuntamento. Poi vennero i telefoni a gettone, in uso dal 1959 al 2001. Nel primo modello, in una fessura sopra il telefono si inseriva il gettone, un dischetto scanalato fatto di alpacca (una variante dell’ottone). Il gettone rimaneva bloccato e sospeso, senza cadere. Si componeva il numero e, alla risposta, si sentiva una vocina lontana, quasi da oltretomba. A quel punto si lasciava cadere il gettone all’interno del telefono, spingendo l’apposito pulsantino. La voce diventava forte e chiara e anche il chiamato poteva cominciare a sentire noi. Poi la tecnica si fece più sofisticata. Il gettone veniva inserito subito ma, in caso di mancata risposta, era restituito! In seguito, per semplificare le telefonate (“che hai un gettone da prestarmi, devo chiamare mia nonna? No, scusa, ce l’avevo ma l’ho usato…”) si sostituì il gettone con le monete. Come prevedibile, i telefoni pubblici cominciarono ad essere considerati dei salvadanai a cielo aperto e vennero vandalizzati per estrarne le monete, con danni molto superiori al valore delle monete contenute. Il passo seguente fu quindi l’introduzione delle schede telefoniche, di cui non credo occorra parlare, perché sono state in circolazione fino a pochi anni fa.
Resta ancora un’ultima domanda: ma… come funziona il telefono di Meucci?
La spiegazione è semplice, se si conosce la natura del suono. Quello che noi percepiamo come suono è una vibrazione che si propaga, prima nell’aria e poi all’interno dell’orecchio. Per raffigurarci la propagazione nell’aria, pensiamo a una fisarmonica. Quando il mantice è disteso, l’aria all’interno è rarefatta; quando viene compresso, l’aria si addensa. Il suono nell’aria è proprio questo: un’alternanza di espansioni e addensamenti.
Il modello più semplice di telefono è basato su un principio analogo. Il suono della voce, con la sua sequenza di compressioni e rarefazioni, arriva su un microfono che contiene della polvere di carbone. Il carbone è un buon conduttore di elettricità, nel senso che, se si toccano i buchi della presa di corrente con due bacchette di carbone, si prende la scossa…
I granelli della polvere di carbone all’interno del microfono si comportano come le molecole dell’aria: quando arriva il suono della voce vengono compressi e diradati alternativamente. Se si fa passare una corrente elettrica attraverso la polvere di carbone, questa scorrerà più facilmente quando la polvere è addensata, perché i granelli sono più vicini tra loro, e più difficilmente quando sono diradati. Quindi l’alternanza di compressioni e rarefazioni (detta “modulazione”) dell’aria si trasformerà in una modulazione della corrente elettrica. Questa corrente elettrica viaggerà lungo un filo di rame, arrivando all’altro telefono. Qui si verificherà il processo inverso, ovvero la modulazione della corrente elettrica sarà convertita in modulazione della densità dell’aria, cioè il suono che si sente al ricevitore. Insomma non è concettualmente tanto diverso dal gioco che abbiamo fatto tutti da bambini, quello del filo teso che collega due bicchieri di plastica. In quel caso la modulazione è dovuta alle vibrazioni del filo, che viaggiano come le onde lungo una corda agitata ad un’estremità, ma il principio è analogo. Abbiamo visto come l’avvento di una nuova tecnologia abbia rivoluzionato il nostro modo di comunicare e, in generale, di vivere. Adeguarsi alle nuove tecnologie quasi sempre aiuta. Volete una dimostrazione? Eccola: Stiamo celebrando il compimento di un secolo dalla posa dei cavi interurbani del 1921. Se l’anno dopo, anziché venirci di persona a Roma, i sansepolcristi avessero fatto una bella telefonata, loro si sarebbero risparmiati tanta fatica e l’Italia una tragicommedia durata vent’anni…
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