Tra apparenza e realtà delle cose
Confindustria alza la voce ma Orsini fa il diplomatico
All’EuropAuditorium di Bologna è andato in scena uno spettacolo di maniera che ha fatto sembrare come se tutto andasse bene. Quando invece le cose, bene, non vanno

È una Confindustria che alza la voce, quella che si è riunita in assemblea ieri a Bologna. La prima fuori dal contesto romano perché l’ammiraglia dell’associazionismo d’impresa ha deciso di girare i territori per mostrarsi più vicina alle sue associate. D’altra parte, per l’efficacia delle sferzate lanciate dal presidente Orsini, si dovrà attendere un po’ tempo. Sarà per il suo carattere e la diplomazia personale. Sarà che non è più il tempo delle assemblee roboanti.
Quando sul palco c’erano Montezemolo o Emma Marcegaglia, da una parte, e Berlusconi dall’altra, l’appuntamento annuale dell’Aquilotto era un must per capire se tra imprese e governo ci fosse amore, oppure la legge di bilancio prossima a venire sarebbe stata un bagno di sangue. Fatto è che ieri, allo EuropAuditorium del capoluogo emiliano romagnolo, è andato in scena uno spettacolo di maniera, che ha fatto sembrare come se tutto andasse bene. Quando invece le cose bene non vanno. «Al netto dell’effetto dei dazi, dopo due anni di flessione della produzione, l’industria italiana è in forte sofferenza», ha ricordato Orsini, relazione annuale alla mano. È un punto dolente su cui le imprese vorrebbero che l’esecutivo mettesse la testa. Al contrario, Palazzo Chigi replica parlando di stabilità politica, recupero della credibilità internazionale persa da tempo – prima di Giorgia Meloni c’era Draghi, va ricordato – e quindi ritrovata attrattività per il nostro ecosistema produttivo. È così? No. Stando sempre a Orsini.
Perché se in Italia le imprese sono vessate da «un sovraccosto energetico che supera il 35% del prezzo medio europeo», vien da dubitare che un imprenditore straniero voglia davvero investire qui da noi. La premier ha parlato di “make in Italy”. Difficile a queste condizioni. D’altra parte, il problema di Orsini non sta nella sostanza, che c’è, ma nel tone of voice. La sua relazione è apparsa tutt’altro che un cahier de doléance. «Per noi non ci sono alternative – ha detto chiaramente Orsini – bisogna pensare alla ripresa dell’industria e al rilancio del Pil. Dobbiamo darci un obiettivo di crescita ambizioso: raggiungere almeno il 2% di crescita del Pil nel prossimo triennio, da consolidare e aumentare nel tempo» .Dal Green Deal, che ci ha esposti al rischio desertificazione industriale, alla Bce, che deve avere più coraggio sul fronte tassi d’interesse e requisiti patrimoniali bancari, passando per le istituzioni europee, per le quali «la norma è l’obiettivo a prescindere». Di proposte concrete le imprese ne hanno ben messe sul tavolo. «Confindustria ha lanciato un appello a non fermarsi davanti alle difficoltà oggettive che ci sono, ma di continuare a credere nell’Italia e nel Governo», per dirla con le parole di una sua past president, Emma Marcegaglia.
È il “Piano industriale straordinario europeo” quello che deve partire da Bologna e far leva sugli investimenti di un “New Generation Eu per l’industria” e l’abbattimento degli oneri burocratici di Bruxelles. Invito, quello del leader di Confindustria, rivolto alla presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, anche lei in sala. Le imprese hanno più paura dei regolamenti interni Ue, che dei dazi di Trump. Un piano industriale e commerciale che agevoli il libero scambio interno, come antidoto al protezionismo. Da qui la presentazione di Ex PanD, uno strumento di mappatura del potenziale export di ogni prodotto e ogni Paese membro Ue, realizzato dal Centro Studi di Viale dell’Astronomia, in collaborazione con la Fondazione Manlio Masi. Le imprese sono convinte che la diversificazione sia l’unica strada alternativa alla guerra commerciale con gli Usa.
Dal Canada all’Estremo Oriente, passando per l’Australia, il Mercosur e l’Unione africana. Emerge così la consapevolezza che non ci sono soltanto i ricchi e numerosi consumatori americani. Davanti all’industria europea che deve tornare a produrre, c’è un mondo con cui fare business. Sarà però necessario fare anche una politica estera strumentale alle imprese. Ecco allora che si svela il vero destinatario del messaggio delle imprese. Non Roma, non solo lei, ma Bruxelles. Le citate Farnesina, Ice, Sace e Simest sono ad hoc per l’Italia. Ma non bastano se si vuole ragionare in chiave continentale. Il divario tecnologico con Usa, Cina ed Emirati Arabi Uniti, ricordato anche da Metsola, è un problema di tutta Europa.
È l’Ue che deve colmare il gap di competenze e di risorse naturali; cervelli e terre rare sono entrambe commodity strategiche. Tuttavia, per tutto questo, serve del tempo. Ce l’abbiamo? No. Orsini, si diceva, ha fatto capire di avere le idee chiare. Di fronte a una premier tanto (troppo?) ottimista e a un’Europa ostinatamente convinta di essere nel giusto, se avesse alzato un pochino i toni, non sarebbe dispiaciuto a nessuno.
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