La Confindustria ha scelto il nuovo Presidente, per un mandato di quattro anni. La scelta avviene al termine del consolidato percorso di nomina della commissione dei saggi che ricevono candidature e le relative soglie minime di consenso necessario a proseguire il percorso e successivamente essere selezionati e poi votati dal Consiglio Generale di Confindustria. Nella valutazione sulla gestione dei quattro anni pregressi, spesso si valuta se si hanno a consuntivo “grandi accordi” capaci di affrontare i grandi problemi e se la base associativa è cresciuta o meno.

Da questa valutazione vanno depurati gli accordi “epocali” che hanno generato tante conferenze stampa ma nessun risultato concreto. Un esempio di scuola ascrivibile a questa attitudine (ovvero di accordi utili solo a chi li firma) è l’accordo interconfederale sulla produttività del 2011. Un’intesa che non ha generato 1€ di investimento. C’è una cosa peggiore dell’assenza delle relazioni industriali: le relazioni industriali “simboliche” e innocue, gli accordi non prevedono impegni veri e in cui ci si esercita sul massimo consenso… sul nulla. Su questi criteri credo che si giudicherà la gestione precedente e quella che è chiamato a guidare Emanuele Orsini. Quando i problemi da affrontare sono impegnativi, come quelli della produttività italiana, dei bassi salari, gli accordi devono servire a prefigurare condizioni di equilibrio migliori proprio grazie ad una responsabilità maggiore che ci si assume tutti insieme.

La “crisi della rappresentanza” non è un fatto nuovo e investe trasversalmente il lato sindacale e quello datoriale. Dal 2014 dopo ben 10 anni ancora non è stato completato un sistema di certificazione della rappresentanza. Sia delle associazioni datoriali che di quelle dei lavoratori. La convenzione che prevede la comunicazione delle aziende all’Inps delle relative iscrizioni è “facoltativa” e le aziende censite, in molti casi, non superano il 50% del totale. È evidente che o si risolve il problema o il ricorso alla legge diventerà inevitabile. Ma ha ancora senso la rappresentanza associativa delle imprese? In che ambiti è ancora attuale e necessaria? In questo periodo abbiamo avuto diverse occasioni in cui il ruolo di Confindustria, insieme alle parti sociali avrebbe potuto fare molto. Crisi settori chiave, inflazione altissima, Pnrr, etc. La contrattazione. Si rinnovano con sempre più fatica i contratti nazionali (con un’efficacia maggiore nell’industria) e non si punta sul decentramento. Non cresce il numero dei contratti aziendali e ancora non si comprende che la contrattazione territoriale per la produttività per le pmi potrebbe consentire di affrontare insieme le sfide e le transizioni. Solo nell’industria ci sono 37 contratti nazionali firmati da Confindustria.

Che senso ha? L’innovazione, oggi la rappresentanza (e vale per tutti) non è semplicemente “guardare le spalle” ai propri associati (che siano lavoratori o imprese) è risolverne i problemi e soprattutto favorire l’innovazione e la crescita professionale. L’Ocse dice che l’Italia è intrappolata in un “low skilled equilibrium”, la taglia dimensionale delle imprese è troppo piccola e l’adozione di tecnologie e nuove forme di organizzazione del lavoro e competenze è rara o troppo costosa. Per questo Confindustria dovrebbe rivendicare e fare la propria parte per costruire una rete di eccellenza di generazione e trasferimento tecnologico e di competenze verso imprese e lavoratori. La scelta è stata invece di costruire i propri Eidh (gli hub dell’innovazione riconosciuti dall’Europa) che in molti casi ripartono da zero.

È urgente una rete nazionale sul modello della Fraunhofer tedesca di generazione e trasferimento tecnologico e di competenze. Le competenze. Bisogna diffondere in tutti i contratti il diritto soggettivo alla formazione. A livello territoriale le associazioni delle imprese hanno un ruolo fondamentale nel ripensare i territori come ecosistemi digitali innovativi, dove si apprende e si genera innovazione. Gli Its academy dovevano esplodere in partecipazione e siamo ancora troppo indietro. L’appartenenza ad un’associazione non può essere una spilletta e qualche cena conviviale, soprattutto in un momento come questo. Il lavoro è il crocevia delle grandi transizioni, digitale, ambientale e demografica. E bisogna decidere se si è gruppo dirigente o qualcosa di più simile alla “Loggia del leopardo”.

Qualsiasi ruolo di rappresentanza senza “visione profetica” è inutile e dannoso. Rischia di oscillare tra il sindacato di ceto e il corporativismo. L’esatto opposto dei presupposti su cui si costruì la confederalità. L’opposto del “hanno tutti ragione”. La capacità di scegliere e accompagnare le imprese dentro le nuove sfide. C’è poi un problema di autonomia. Il sindacato (datoriale o dei lavoratori) non è tale se cinghia di trasmissione o collaterale a governi o opposizione. Comprendo che le partecipazioni pubbliche abbiano uno ruolo importante nel sistema industriale italiano ma la loro presenza nella stessa base associativa delle pmi crea strabismo strategico. Le partecipate continuano a crescere (di numero) ma rappresentano quanto di più distante dal sistema di pmi italiane in termini di bisogni e di rappresentanza. Una piccola impresa è definita tale sotto i 50 dipendenti, ha un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 10.000.000€.

Il nostro paese è fatto di micro imprese, ovvero sotto i 10 dipendenti. Le parti sociali devono scegliere se è un valore l’autonomia perché da forza e credibilità alla rappresentanza o è il sistema attuale che la indebolisce ma che garantisce un qualche spazio di “potere politico” nelle indicazioni di alcune nomine (o in alcuni veti). È il vecchio dilemma se essere rappresentanti di un tessuto sociale e produttivo o di un gruppo dirigente in cerca di fortuna Il Paese ha bisogno di democrazia diffusa e la qualità della rappresentanza definisce la qualità della democrazia. L’uscita da Confindustria di Fca dal gennaio 2012 è stata seguita da altre aziende e in altri settori. Doveva essere invece una buona occasione per avviare una riforma vera di Confindustria. Non è mai troppo tardi.