Caro Giovanni Malagò, ti scrivo da amico, di più, da cardiopatico (sebbene lieve) e ancora, già che ci siamo, da residente quarantennale (sebbene palermitano di nascita) della nostra ormai comune città, Roma. Luogo eletto di cui tu sei indubitabilmente, antropologicamente, posturalmente una figura apicale, radiosa del suo paesaggio pubblico. Mi rivolgo dunque a te, non in quanto presidente del Coni (sia detto per inciso, non ho mai coltivato amore per gli sport, nonostante mia madre fosse giudice d’atletica leggera e mio padre commissario di gara ai box dell’ormai tramontata Targa Florio) piuttosto per ciò che rappresenti, dal punto di vista dell’aura “mondana”, ossia come incarnazione vivente nel meraviglioso cittadino, sia detto nel senso più alto e assoluto della parola.

Guardando te, e qui parlo da scrittore che ha raccontato Roma, meglio, ha provato a restituirla in quasi tutti i suoi spicchi rilevanti: dagli autisti dei politici in attesa, metti, a Montecitorio, creature in blazer ordinario che danno la misura della realtà ministeriale più dei loro “principali”, anzi, di ciò che Pasolini chiamava “il Palazzo”, ai cardinali immobili davanti alle tavole calde di via del Mascherino, dietro San Pietro, nei giorni di Conclave, senza infine dimenticare la leggenda dei cocainomani dei Parioli in smart. Sappi che per anni mi sono detto che per essere socialmente “realizzati” a Roma, anzi, per sentire la pienezza sociale della città nel suo modello base affluente, sarebbe bastato esserti amico: sì, uscire di sera con te, magari a bordo di una Ferrari, sfiorando il paesaggio circostante, anche quello femminile, aggiungendo che tuttavia questo non era il mio desiderio, in quanto la mia storia di “comunista” (dico così per semplificare, ma ci siamo capiti, no?) non si sarebbe mai conciliata con una serata al “Jackie O’” o, che so, al “Notorius”, sempre che questi luoghi esistano ancora. Aggiungendo infine che non era affatto questo il mio “sogno”.

Invece mi sbagliavo. L’ho capito una sera che ci siamo incrociati a casa di un comune amico, Roberto D’Agostino: era in corso la semifinale dei campionati europei di pallone, e tutti o quasi stavano davanti a un teleschermo a vedere la penultima partita decisiva, tu invece, nonostante il distintivo con i cerchi olimpici all’occhiello, sei rimasto a cazzeggiare con me, e abbiamo parlato all’universo mondo, ci siamo regalati anche una foto insieme, dove ridiamo allegramente, con noi anche Paolo Sorrentino. Al nostro selfie si è aggiunto piratescamente un altro ospite, ritenendo sicuramente che comparire con voi due desse, come dire, un buon punteggio di considerazione sociale. Al contrario, io in quel momento mi sono accorto del tuo talento umano, della capacità di trascendere anche l’ordinaria, perdona se mi ripeto, mondanità amichettistica dell’Urbe. Da quel momento esatto mi sono detto che le mie valutazioni precedenti sulla tua persona erano errate, anzi, che volentieri sarei uscito con te, e avremmo trascorso una splendida serata nella gratuità del perder tempo, così, per puro spleen.

Perfino, metti, raggiungendo in piena notte Monte Mario, dov’è “Lo Zodiaco”, per guardare la skyline di Roma dall’alto per riflettere sul senso, gli splendori e le miserie della nostra città. Forse lo ignori, ma quel locale leggendario è chiuso da anni, e perfino il vialetto degli Innamorati è in stato d’abbandono, una selva, una giungla di sterpaglie. Ho appena letto che sei stato poco bene: hai rischiato un ictus, e la notizia mi ha suggerito questa lettera. Perché con le tue parole dove racconti la fibrillazione atriale mostri la necessità di sottolineare il senso del “limite”, ciò che è contrario alla cultura dominante dell’ambizione. Dunque, così dicendo, hai scelto di trascendere l’ordinaria percezione delle cose, anche in questo caso romane, ministeriali, andando oltre l’immagine, il feticcio, l’ossessione già citati del Palazzo. E del suo presidio.

Mentre leggevo del malore che ti ha riguardato, sono tornati in mente i giorni del mio ricovero all’ospedale “San Camillo” di Roma (lo stesso nosocomio dove periodicamente finisce Adelaide, la protagonista di Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca di Ettore Scola), per un intervento a una valvola mitrale, nulla di che, intendiamoci. Così ritrovando a mia volta il senso, la percezione del limite. Nei giorni del ricovero, devi sapere, non potevo non fare caso a una lettera di ringraziamento affissa nella bacheca della medicheria, scritta qualche mese prima da Giuliano Gemma, sì, proprio dal già pistolero “Ringo” e partigiano indomabile “Corbari”, nella quale ringraziava le ragazze del personale, avendo deposto la colt sul comodino, accanto all’asta della flebo. Ora, mettendo da parte ogni riflessione sull’ambizione che governa le meccaniche poco celesti di questa nostra città, Roma, proprio per la sua prossimità con il potere, dai politici all’ultimo dei portinai, anzi del capo fabbricato, così come veniva chiamato al tempo del littorio, proprio in questa città di palazzine e palazzinari, mi sembra che invece questa tua confessione a cuore semichiuso, diciamo così, ti abbia sollevato oltre l’orrore quotidiano del mondo delle relazioni, parlo delle relazioni interessate.

Ci pensi che esistono (e se solo potessimo ascoltarle sarebbe un racconto irresistibile di denuncia “civile”), ci pensi che in questo nostro mondo circoscrizionale esistono creature il cui primo pensiero del mattino non riguarda, non inquadra la nostra assoluta impermanenza, anzi, l’impermanenza delle cose stesse, ma piuttosto il capofitto della conversazione interessata, in nome dell’ambizione ancora una volta ministeriale. Ecco, perdona se mi sono dilungato quasi letterariamente, eppure mi è sembrato che proprio le tue parole riferite proprio al limite fisico, mi è davvero sembrato che grazie a quelle tue parole per un istante almeno il volto pietoso dell’altrui ambizione capitolina abbia brillato un po’ di meno del solito, del sempre. Un abbraccio e ogni bene, Fulvio.

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Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube. Il suo profilo Twitter @fulvioabbate