“Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini e vi troverò materiale sufficiente a farlo impiccare”. Questa frase, pronunciata dal cardinale Richelieu, riassume il senso della giustizia politica. O meglio, dell’uso politico e strumentale che il potere può fare della giustizia. Non a caso descrive un’attitudine valida sotto ogni regime e in ogni epoca. Compresa quella attuale, come ben sa chi conosce le vicende che hanno accompagnato gli ultimi trent’anni della nostra storia nazionale. Certo oggi la pena di morte non esiste più, ma ci sono molti modi di infliggere una condanna alla morte civile, a una forma di ostracismo in patria o addirittura alla damnatio memoriae. Bastano quelle poche righe estrapolate di cui parlava Richelieu.

Poiché, come diceva Benedetto Croce, “la storia è sempre storia contemporanea”, nel passato si trovano esempi indiscutibili di una tendenza che attraversa i secoli e ha qualcosa a che fare con una forma di assolutismo, di potere che rifiuta ogni controllo, respingendo quella bilancia che garantisce equilibrio alla democrazia. E per la quale strumento irrinunciabile è – o dovrebbe essere – una stampa libera e coraggiosa, mossa dal desiderio di cercare la verità e non la semplice conferma di pretestuosi teoremi. Né tanto meno dalla vocazione interessata a sostenere gruppi più o meno forti. Un archetipo in tal senso è Nicolas Fouquet, Sovrintendente delle Finanze di Mazzarino e Luigi XIV. Nato a Parigi nel 1615, proviene dalla noblesse de robe, la “nobiltà di toga” che si è arricchita con il commercio e poi ha acquistato per i propri rampolli delle cariche pubbliche. Laureato in diritto alla Sorbona, viene nominato grazie a Richelieu consigliere al Parlamento di Metz, quindi “relatore ai ricorsi”. Nel 1642 il “gran cardinale” muore e Giulio Mazzarino prende il suo posto come Primo ministro. Ė lui, insieme ad Anna d’Austria, a governare la Francia in nome del piccolo Luigi XIV. Durante la reggenza, però, i Grandi si fanno più facinorosi; il Parlamento di Parigi (composto da magistrati, non da parlamentari), che amministra la giustizia per conto del sovrano, diviene più potente e geloso delle proprie prerogative. Dopo poco, inizia la ribellione conosciuta come “Fronda”.

Uno dei problemi maggiori, per la corona, è trovare denaro, necessario per fare la guerra, difendersi, pagare amici e nemici, distribuire prebende, mantenere il re e la corte. Il sistema finanziario è anacronistico, incapace di “una previsione di spesa”, ovvero quella che chiameremmo una finanziaria. Non esiste una Banca di Francia, né un vero ministero del Tesoro: le entrate non sono sufficienti, per cui il sovrano è spesso costretto a ricorrere ai banchieri, che gli prestano i soldi a tassi elevati. Può succedere che la monarchia non sia considerata affidabile; allora i banchieri concedono il prestito a colui che offre maggiori garanzie ed è quest’ultimo a dare i soldi al re, correndo grandi rischi ma ricavandone ampi utili. In questa “finanza creativa”, dove non mancano neppure i “titoli spazzatura”, le tasse vengono mangiate con anni di anticipo ed è necessaria un’abilità da prestigiatore perché il sistema non collassi.

Mentre la guerra civile impazza, Mazzarino è costretto due volte all’esilio; la regina e il re bambino alla fuga da Parigi. Fra colpi di scena ben descritti da Alexandre Dumas, un uomo si impone, rendendosi insostituibile nel reperire le risorse necessarie allo Stato e poi nel porre le condizioni per la sconfitta del Parlamento: Nicolas Fouquet. Sempre lui aiuta il cardinale ad ammassare un’immensa fortuna. Per premio, nel febbraio 1653 viene nominato Sovrintendente delle Finanze. Inizia la fase di apogeo dello “Scoiattolo”: l’emblema dei Fouquet, infatti, è uno scoiattolo insieme alla divisa Quo non ascendet, “Fino a dove non salirà”? Un motto imprudente, ma che si addice al proteiforme, intelligente, abilissimo Nicolas, ovvero Monsieur le Surintendent. Fastoso, brillante, generoso, visionario, gran signore, colto, protettore delle arti, estimatore delle belle donne, capace di geniali intuizioni, Fouquet “il Magnifico” costruisce in quegli anni il castello di Vaux-le-Vicomte. In giro si dice che “ospiti il Perù a casa sua”: risponde solo al re, le spese di questi passano per lui. Ė Fouquet che firma per autorizzare le ordinanze di pagamento, sempre lui quello a cui i banchieri prestano i soldi. Inoltre, è procuratore generale del Parlamento.

C’è però un rovescio della medaglia: tanta luce, tanto consenso gli attirano invidie feroci. Fra coloro che lo detestano c’è un oscuro commesso di Mazzarino, Jean-Baptiste Colbert, che vuole prenderne il posto. Nemmeno il cardinale, che gli deve tutto, lo ama davvero ma si guarda bene dal palesarlo. Si limita a porre le premesse per la caduta successiva, diffamandolo presso il re. Lo spartiacque è quel 9 marzo 1661 in cui “l’italiano” muore. Per Luigi XIV, ancora lontano dall’essere il re Sole, è il momento della “presa di potere”. Come dice lui stesso, “la faccia del teatro cambia”. Fouquet non se ne rende conto, anzi spera di essere nominato Primo ministro e non ascolta le voci allarmanti. Nella manciata di mesi in cui si consuma la sua perdita, Colbert riesce a “contaminare” il re con il suo odio feroce, convincendolo che il Sovrintendente è troppo potente, sa troppe cose e va eliminato. Luigi XIV, dal canto suo, ha dimenticato le prove di lealtà che questi gli ha dato e ne patisce la superiorità, i talenti. Inoltre, l’illecito arricchimento di Mazzarino necessita un capro espiatorio: non si può fare un processo al cardinale defunto, ma a Fouquet sì.

La carica in Parlamento resta uno dei pochi “scudi di protezione”, poiché equivale a una “immunità”, tuttavia Colbert convince Fouquet a venderla, con la scusa che il sovrano ha bisogno di soldi. L’ingenuo cade nella trappola, manda il ricavato a Luigi XIV e questi, fregandosi le mani, esclama: “Si è messo in trappola da solo!”. L’ultima pennellata viene data quando il re va alla meravigliosa festa che il 17 agosto 1661 il Sovrintendente offre in suo onore a Vaux-le-Vicomte. Commenterà Voltaire: “Alle sei di pomeriggio Fouquet era il re di Francia, alle due del mattino non era più nulla”. Il 5 settembre viene arrestato a Nantes dal luogotenente dei moschettieri d’Artagnan. Inizia così un lunghissimo calvario giudiziario, che lo porta a peregrinare per anni in diverse carceri – “carcerazione preventiva” – senza nemmeno sapere di cosa sia accusato. Nel frattempo Colbert falsifica le prove, assiste senza averne diritto alle perquisizioni, avalla le peggiori nefandezze. Quando finalmente comincia il processo, la “Camera di giustizia” scelta per giudicare l’ex Sovrintendente è stata composta dai suoi nemici, i testimoni vengono corrotti o intimiditi, sui giudici si esercita una forte pressione, l’opinione pubblica viene montata con articoli scandalistici, false rivelazioni e delazioni ad arte.

I capi di imputazione sono tantissimi ma alla fine si riducono a peculato e lesa maestà. Gli abusi commessi dalla corona sono tali che alla fine l’opinione pubblica e persino i giudici si convincono del fatto che Fouquet è soprattutto un capro espiatorio. E così, invece di condannarlo a morte come vorrebbe Luigi XIV, i magistrati optano per il bando a vita, dichiarandolo colpevole di peculato. Folle di rabbia, il re avoca a sé la sentenza, smentendo i giudici scelti da lui stesso, e la muta nel carcere a vita e nel sequestro dei beni. La sua vendetta si abbatte su quei magistrati che non sono stati abbastanza compiacenti e che cadono in disgrazia. Lo Scoiattolo viene lasciato in carcere a Pinerolo per circa vent’anni, nonostante le infinite pressioni dei letterati e di molti importanti personaggi perché venga liberato. Lì morirà, nel 1680. Commenta Saint-Simon: “Monsieur Fouquet… pagò i milioni che il cardinale Mazzarino aveva preso, l’invidia di Le Tellier e Colbert, un po’ troppa galanteria e splendore con 34 anni di carcere a Pinerolo, perché non avevano potuto fargli di peggio”. (In realtà gli anni di carcere erano 19, ndr). Nulla di nuovo sotto il sole, del resto. Era già capitato, sarebbe capitato ancora.