Le prime conseguenze dell’azione americana sembrano essere una generale condanna della comunità internazionale, un rafforzamento dei legami identitari del mondo sciita, un ricompattamento della società iraniana dilaniata dalle sanzioni occidentali e l’uscita dell’Iran dai patti di non proliferazione nucleare. Il consenso internazionale attorno agli Usa oggi è davvero esiguo. Gli attacchi preventivi attraverso gli omicidi mirati, mediante droni, non trovano giustificazione nel diritto internazionale umanitario, oltre a presentare una seria sfida alla sovranità nazionale. Il segretario di Stato, Mike Pompeo, si è impegnato a spiegare ad amici e alleati le ragioni degli Usa ma ha incassato un plauso solo da Gerusalemme (peraltro scontato) mentre ovunque dilagano scetticismo, sconcerto e condanne più o meno manifeste. I presidenti russo e francese discutono ormai sempre più apertamente su come contrastare la politica di Trump e Macron dopo aver diffuso il comunicato congiunto di condanna assieme all’omologo russo Vladimir Putin ha triangolato con la Germania e il ministro degli Esteri cinese. Macron, in particolare, vuole riposizionare il suo Paese come punto centrale nel Medio Oriente dopo aver perso il ruolo storico in Libano e dintorni.

Ma altre due conseguenze negative sono connesse all’azione del drone a Baghdad: una escalation nucleare del mondo arabo e la rottura della fragile tregua politica in Iraq. Entrambe sono sotto gli occhi di tutti. L’Iran abiura al trattato di non proliferazione nucleare e, per quanto non sia un rischio di domattina, Teheran proverà a essere il terzo Paese con Arabia Saudita e Israele a dotarsi di deterrenza nucleare nella regione. La stagione della guerra fredda e dell’equilibrio nucleare sembra tornato e non è detto che stavolta ci vada così bene. Il fragile Iraq sarà destinato a rimanere il principale terreno su cui si gioca il confronto Usa-Iran. A poche ore dall’attentato, il parlamento di Baghdad ha votato una risoluzione che chiede la partenza delle truppe straniere, a cominciare dai 5.200 soldati americani che sono ancora nel paese.

Il primo ministro iracheno Adel Abdul Mahdi ha personalmente chiesto l’allontanamento degli statunitensi, Questo aspetto evidenzia il crollo dell’influenza degli Stati Uniti in Iraq, paese dove gli americani hanno perso 4.500 uomini. Se la richiesta del parlamento sarà eseguita, Donald Trump potrebbe passare alla storia come il presidente che ha “perso” l’Iraq a beneficio del suo nemico giurato, l’Iran. La vendetta di Teheran potrebbe realizzarsi anche in una rappresaglia nello stretto di Hormuz dal quale passano 22,5 milioni di barili di petrolio al giorno, il 24% della produzione quotidiana mondiale, restringendone la portata e facendo schizzare alle stelle del greggio. E le principali conseguenze sarebbero in capo ai Paesi europei che patirebbero il prezzo dell’insicurezza causata da un conflitto in cui non si sarebbero imbarcati. La fase che si apre è dunque complessa e l’Italia non può rinunciare a giocare un ruolo prezioso.

Avremmo in potenza tutte le caratteristiche per contribuire a una mediazione, essendo stabili e riconosciuti alleati atlantici ed essendo il Paese europeo con cui l’Iran ha rapporti migliori, di ordine commerciale e culturale. Del resto, in passato nella stessa regione, svolgemmo una funzione che portò alla pace tra Libano e Israele. Pesano però negativamente nel rapporto con gli Usa la nostra incapacità di esercitare un vero protagonismo in Libia dove gli americani ci sollecitavano, per evidenti ragioni storiche, a fermare il conflitto e a definire il nuovo corso. La nostra oscillazione tra Al Sarraj e Haftar e la sostanziale sconfitta politica nell’impedire che la regione diventasse oggetto di espansione geostrategica turca e russa non ci rende pienamente affidabili. Nel secondo caso, l’adesione per quanto sfumata, al regime delle sanzioni contro l’Iran ci ha reso interlocutori meno credibili.

Ciò nonostante, l’Italia ha una forza diplomatica che può essere spesa tra i contendenti e nel quadro dell’Ue, purchè la eserciti tempestivamente. La prima cosa da perseguire è l’unione più ampia possibile tra le forze politiche e tra l’Esecutivo e il Parlamento. Se il nostro presidente del Consiglio riuscisse nell’impresa di far convocare un Consiglio europeo dei Capi di Stato dell’Unione europea su poche ma chiare proposte concrete di de-escalation del conflitto potremmo riuscire nell’intento di avvicinare le posizioni tra i Paesi membri, oggi molto lontane, e far guadagnare all’Europa un suo protagonismo nello scacchiere. Una missione dell’Europa che non escluda la presenza di un contingente militare di interposizione e garanzia di neutralità in alcuni luoghi caldi, una missione di sicurezza congiunta che finalmente ci metterebbe alla prova come unione politica e non come sommatoria di interessi nazionali.