Il dibattito sul referendum al quale stiamo assistendo, in particolare a proposito del quesito sulla cittadinanza, contiene diverse inesattezze. Un problema, a quanto pare, contagioso, perché qui ne abbiamo subito aggiunto un altro: infatti il dibattito proprio non c’è. Ci sarebbe se qualcuno trovasse la voglia di entrare nel merito della questione, smettendo di fingere che il problema di una nuova regolamentazione del riconoscimento della cittadinanza non fosse qualcosa di ineluttabile, con la quale prima o poi dovremo necessariamente fare i conti, e in modo serio. Ma al momento sembra che non si riesca ad andare molto oltre il confronto sull’opportunità del ricorso allo strumento referendario.

In anni come questi, in cui la sbornia della democrazia diretta ha manifestato plasticamente tutti i suoi limiti, è innegabile che l’immagine del referendum appaia quantomeno appannata. Già abusato in passato, non sarebbe del resto la prima volta che un tema di stringente importanza finisca tombato a causa della frenesia dei comitati referendari. Il dato che emerge, ancora una volta, è quello della vulnerabilità di una politica che non riesce a trovare il passo delle decisioni importanti: congelata su di una proiezione del consenso di cui si valutano sempre e soltanto le ricadute immediate. Quegli spasmi subitanei che tanto sono rapidi a diffondersi, quanto anche – però – a scomparire. Una politica debole, tuttavia, non si sente in grado di reggerne il primo urto, né di farsi affidabile garante di decisioni che, semplicemente e nel più ampio interesse collettivo, andrebbero prese.

Direi che il tema del riconoscimento della cittadinanza italiana, in quest’ottica, è davvero esemplare. Se si fosse trovata la ragionevole volontà politica di andare fino in fondo sulla proposta dello ius scholae, che innegabilmente rappresentava – e rappresenta ancora – la più equilibrata e produttiva delle soluzioni, probabilmente non ci troveremmo qui a commentare l’ennesimo e probabile naufragio referendario. Perché quella proposta non solo risponde all’esigenza di regolare in modo efficace il riconoscimento della cittadinanza, ma pure provvede a semplificare il compito di quella “politica debole” che, per il mezzo della scolarizzazione dei futuri italiani, potrebbe vincere l’irrazionale paura di perdere la propria anima.

In realtà non si può dire che sia una sorpresa il fatto che una sostanziosa parte della politica annunci e suggerisca oggi l’astensione al referendum. Perché sul tema della cittadinanza – di fatto e colpevolmente – già si asteneva, laddove avrebbe potuto invece trattare la materia in completa libertà, al di fuori dall’angùstia di un quesito referendario che, per sua natura e al di là del merito, si può solo prendere o lasciare. Ed è per questo che chi dice, sentendosi al centro del mondo, che la scelta dell’astensione al referendum sia illiberale, uno scandalo o una vergogna, commette l’ennesima inesattezza. Molti di questi sono, per di più, gli stessi che hanno governato per molti anni, senza tuttavia farsi sfiorare dall’urgenza di un tema tanto importante. Se ne accorgeranno forse dopo il referendum, quando riprendere il dibattito sul tema (il dibattito fantasma) sarà ancora più difficile. Il problema non è il “non expedit” di stagione, quanto quel silenzio pilatesco e trasversale della politica che, sulla cittadinanza e su tanti altri temi, ha già sprecato troppe primavere.