Editoriali
Diversità e inclusione, il cambio di rotta delle big tech Usa costringe noi europei a chiederci cosa fare
Le grandi multinazionali americane smantellano i dipartimenti dedicati alla diversity & inclusion. Trump piazza i suoi decreti presidenziali come chiodi nella bara del politicamente corretto. Le strade sono due: resistenza o stay behind, entrambe fatali perché non cambieranno nulla

C’è una domanda che serpeggia ormai a mezza bocca negli eventi sulla diversità e l’inclusione sempre più radi, sempre più mesti, lontani dalla gloria mediatica di pochi mesi fa. Una domanda breve, ruvida, romana nella sua sintesi brutale: “E mo’?”, che tradotto al di sopra della linea gotica suonerebbe più o meno come: “E adesso che facciamo?”.
Già, perché mentre qui da noi ancora si ragiona se sia il caso di continuare o fermarsi, gli Stati Uniti, pionieri della diversità e avanguardia della “rivoluzione woke”, hanno già cambiato strada. Le grandi multinazionali americane smantellano a ritmo folk i dipartimenti dedicati alla diversity & inclusion, e Donald Trump piazza uno dopo l’altro i suoi decreti presidenziali come chiodi nella bara del politicamente corretto.
E mo’? Le risposte in circolazione sono due, entrambe sconfortanti. Da un lato, la “resistenza partigiana” dei puristi della diversità, quelli convinti che nulla sia cambiato e che basti resistere tenendo fede alla linea; dall’altro, i “stay behind”, quelli che hanno scelto di eclissarsi, nascondersi sotto il tavolo aspettando tempi migliori. Due strategie apparentemente opposte, in realtà perfettamente identiche nel loro errore fatale: non cambiare nulla.
Ma proprio qui c’è l’occasione persa più grave: riflettere seriamente su cosa abbiamo sbagliato. Perché qualcosa, evidentemente, è andato storto. Forse è tempo di ammettere che la diversità come unico centro aggregante non regge. Mai, nella storia umana, una comunità è sopravvissuta puntando solo sulla diversità. L’identità, parola odiata da alcuni, demonizzata da altri, è il vero collante sociale. Senza un’identità comune non resta altro che un mosaico caotico di sensibilità individuali, ognuna con la pretesa di diventare universale. Ma così si finisce per non essere più comunità, solo singole isole di un arcipelago di diversità. Il sovranismo, fenomeno tanto odiato quanto frainteso, forse altro non è che la reazione disperata alla mancanza di un “centro di gravità permanente”. È la reazione istintuale ma comprensibile di chi, davanti alla disgregazione di ogni punto fermo, cerca disperatamente qualcosa a cui aggrapparsi. Non si tratta di giustificarlo, ma di comprenderne la genesi.
La diversità doveva liberare le minoranze, invece ha consegnato loro un potere enorme che non hanno saputo gestire. Abbiamo assistito a una rivolta contro il patriarcato, ma nessuno ha proposto un’alternativa concreta, una visione alternativa di società che non fosse il mero “specchio inverso” della precedente. Si è continuato a ragionare per “categorie”, frammentando ulteriormente ciò che si voleva unire. Le minoranze hanno ottenuto più potere che mai, ma l’hanno gestito come chi le aveva precedute: cambiando i protagonisti ma mantenendo le vecchie regole. La vera rovina, però, è stata provocata da una categoria speciale e inattesa: gli oppositori. Non presente nella “grande mappa” (la famosa Big 8 dell’inclusione). Con loro l’inclusione ha mostrato il suo volto peggiore, quello del giudizio morale, della censura. “Retrogradi”, “fascisti”: il vocabolario dell’inclusività si è ristretto fino a rispolverare il “paradosso dell’intolleranza” di Popper—”Non tollerare gli intolleranti”—una formula diventata presto giustificazione perfetta per una caccia alle streghe a colpi di ostracismo digitale.
Infine, la maledetta velocità. Abbiamo imposto cambiamenti così rapidi e massicci che persino i più convinti sostenitori della causa hanno vacillato sotto il peso delle novità: sigle, termini, regole di comportamento mutate ogni giorno, nuovi tabù, revisioni storiche, favole da riscrivere. Non è questione di opposizione ideologica, semplicemente è mancata la capacità di stare al passo. Troppo, troppo in fretta. Le persone si sono perse per strada. Capita. Anche la Rivoluzione francese, se non ricordo male, è poi finita nel Terrore.
Così la diversità, in pochi mesi, ha bruciato il consenso che aveva guadagnato con decenni di fatiche. Accade sempre, del resto, quando si inizia a credere di essere così forti da non aver più bisogno di consenso. Se si sono fatti degli errori, non vuol dire che si sia sbagliato tutto. Succede. E mo’? È ora di smettere di nascondersi sotto il tavolo o dietro la propria presunzione di giustizia. Perché la diversità sia davvero inclusiva, forse è tempo che torni anche a essere umana, che metta al centro l’identità, sia più tollerante e proponga finalmente modelli nuovi di condivisione del potere.
© Riproduzione riservata