Al netto delle rivalità personali, che in politica è sempre bene non sottovalutare, quello che ormai apertamente lacera il M5s è un scontro tra due opposte concezioni della rappresentanza politico-parlamentare. Scontro, invero, frutto di una volutamente irrisolta ambiguità, simboleggiata fin dall’inizio dalle contrastanti posizioni assunte da Fico e Casaleggio jr. Il primo, anche in ragione del proprio ruolo istituzionale, proteso già nel suo discorso d’insediamento a difendere la centralità del Parlamento come luogo di confronto e sintesi tra le forze politiche. Il secondo, invece, erede della visione futuristica del padre, portatore di una critica radicale della democrazia parlamentare, destinata inesorabilmente ad essere sostituita da una democrazia digitale permanente attraverso cui la sovranità del popolo sarebbe non più rappresentata ma direttamente esercitata su ogni questione politica, superando tutte quelle organizzazioni sociali intermedie dominanti, partiti in testa, che ne alterano la genuina volontà.
Com’è andata a finire lo sappiamo. Entrati in Parlamento per aprirlo come una scatoletta di tonno, tutte le proposte per renderlo sempre più marginale, ispirate da una cultura costituzionale populista, sono per lo più miseramente naufragate.
Il vincolo di mandato parlamentare non è stato mai formalizzato e la penale di 100 mila euro prevista dagli statuti interni dei gruppi parlamentari per i transfughi (non pochi da inizio legislatura: 27 deputati e 17 senatori) si è ben presto rilevata per quel che giuridicamente è: un inutile spaventapasseri. La proposta di riforma costituzionale per l’introduzione di un referendum deliberativo sulle proposte di iniziativa popolare non approvate dal Parlamento, in un’ottica quindi competitiva e non collaborativa, è finita su un binario morto.
Il limite del doppio mandato, espressione della retorica dell’«uno vale uno» e del «parlamentare portavoce» è, come prevedibile, miseramente caduto. Rimane solo la riduzione del numero dei parlamentari, oggetto del prossimo referendum del 20-21 settembre che, se approvata, avrà rilevanti effetti sistemici, a cominciare dalla riforma dei regolamenti parlamentari, specie al Senato che, per come oggi organizzato, molto difficilmente potrà funzionare con appena 200 membri.
È in questo contesto che si colloca la presentazione da parte di Casaleggio jr. nei giorni scorsi di una nuova piattaforma di voto digitale dal nome indubbiamente meno evocativo di Terminus. Iniziativa in certa misura obbligata dai gravi e circostanziati rilievi mossi dal Garante della Privacy sulla sicurezza e imperforabilità di Rousseau, ora superati, a quanto si sostiene, grazie alla mitica blockchain.
Intendiamoci: il voto digitale è questione seria che le democrazie, specie di alcuni paesi europei (l’Estonia per tutti) hanno già preso in considerazione per agevolare le operazioni di voto e di scrutinio. Ma un conto è, per l’appunto, sfruttare le possibilità offerte dalle moderne tecnologie digitali per migliorare il processo elettorale e, volendo, anche l’attività parlamentare (il riferimento è ovviamente alla controversa questione della partecipazione in via telematica che, passata l’emergenza, dovrà comunque essere ripresa e meditata); altro è invece pensare di sostituire così le assemblee parlamentari con una democrazia digitale in tempo reale.
La pretesa superiorità della democrazia diretta sulla democrazia rappresentativa dà per presupposta quella libertà e capacità di occuparsi quotidianamente della cosa pubblica che i “moderni” cittadini, rispetto agli “antichi”, non hanno. Tale scarsa partecipazione trova conferma proprio nell’esperienza maturata in questi anni dal M5s, dato che solo poche decine di migliaia d’iscritti partecipano alle votazioni on line sottoposte da Grillo. Sempre l’esperienza del M5s dimostra, inoltre, come il ricorso alla Rete sollevi rilevanti problemi operativi: l’analfabetismo informatico, il digital divide che non permette ai cittadini di partecipare in condizioni di parità; la paternità del quesito, la cui formulazione, talora modificata in corso di votazione, non è com’è noto irrilevante ai fini del suo esito; infine le modalità di voto, talora tutt’altro che trasparenti.
Al di là di ciò, la pretesa superiorità della democrazia diretta internettiana si fonda su un’idea semplificatoria, in definitiva populista della politica e della stessa democrazia. Un’idea dicotomica, dove la scelta tra alternative predefinite, senza mediazioni (o “si” o “no”) è affidata alla dura legge dei numeri, ma che in realtà nasconde al suo interno una concezione totalitaria del popolo, come entità indistinta, unitaria, accomunata da un’unica visione del bene comune perché illuministicamente capace, grazie anche alla rete, di distinguere il vero dal falso e, quindi, di decidere ciò che è bene e giusto per tutti. Dopo la sbornia di antipolitica, complice l’emergenza sanitaria, i cittadini hanno ormai capito che la politica è un’arte complessa e difficile, che non può essere affidata a persone prive di competenze (anche sintattiche e grammaticali) perché richiede conoscenza approfondita dei problemi e capacità di mediazione e pragmatismo, senza affidarsi a soluzioni miracolistiche e automatiche in nome di una spesso pretesa volontà del popolo.

*Professore in Istituzioni di Diritto pubblico. Università degli Studi di Enna “Kore”