Editoriali
Ecco perché il M5S andrà in mille pezzi

Premessa: l’Italia è l’unico paese europeo nel quale nel ’92-’94 ben cinque partiti sono stati azzerati, non dal voto degli elettori ma dall’azione di un pool di Pm – connesso ad alcuni quotidiani e ad alcune reti televisive – per il finanziamento irregolare di cui si alimentavano. Se si fosse seguita la stessa metodologia tra gli anni 40 e 50 anche De Gasperi, Togliatti, Nenni, Saragat si sarebbero trovati in guai serissimi: i loro partiti erano finanziati dalla Cia, dal Kgb, dalla Fiat, dalle Cooperative rosse, dall’Eni, dall’Assolombarda, dal commercio con l’estero con i paesi dell’Est, dai sindacati americani, dal Vaticano (vedi i Comitati Civici) e chi più ne ha più ne metta. Il merito storico di Berlusconi nel 1993-1994 è stato quello di essere sceso in campo fondando Forza Italia e federando il centro-destra, e in questo modo rendendo possibile una dialettica bipolare nella vita politica italiana. Quello italiano è stato un bipolarismo anomalo rispetto a quello europeo, fondato sulla dialettica tra un grande partito conservatore e un grande partito social-democratico. Il nostro bipolarismo invece è consistito in uno scontro frontale fra berlusconiani e antiberlusconiani.
Nella logica di questo scontro frontale entrambe le coalizioni erano molto eterogenee, buone per vincere le elezioni, molto meno per governare. Di conseguenza la governabilità durante la cosiddetta Seconda Repubblica è stata a livelli abbastanza scarsi. Poi nel 2011 tutto è saltato per aria in seguito alla crisi finanziaria iniziata dal 2008 negli Usa e proseguita in Europa. Invece di dar via libera a elezioni anticipate Napolitano tenne a battesimo il governo Monti per evitare il default. A nostro avviso quella austerità fu giusta per ciò che riguarda la riforma delle pensioni, eccessiva per le imposizioni sugli immobili. Quell’eccessiva austerità ha provocato una reazione di rigetto nel profondo della società italiana a cui ha dato espressione un nuovo partito-movimento, il Movimento 5 stelle, ideato e guidato da un comico, Beppe Grillo, e da un titolare di una società fondata sull’uso della rete, Gian Roberto Casaleggio. Casaleggio ebbe l’intuizione di tradurre in una formazione politica attraverso l’uso di internet il successo che Grillo aveva nelle sue manifestazioni di piazza fondate sul vaffa nei confronti di tutti, in primo luogo nei confronti di Berlusconi e del Pd. Fu creato così dall’alto un movimento privo di cultura politica, centralizzato al massimo nella sua direzione politica, nel quale gli eletti non possedevano né autonomia né sedi di decisione e di confronto.
Tutta la piattaforma messa così in piedi da Grillo e da Casaleggio era fondata su una opposizione frontale a tutto e a tutti che combinava insieme materiali di estrema destra e di estrema sinistra, miscelandoli in modo casuale: antiparlamentarismo, ultra giustizialismo (“onestà, onestà”, i giudici hanno sempre ragione, chi è indiziato deve dimettersi), anticapitalismo, rifiuto totale di nuove opere pubbliche, decrescita felice e conseguente assistenzialismo, riferimento internazionale a Chavez–Maduro, a Putin con tanto di antiamericanismo, antisionismo, sostanziale neutralismo (mozione per l’uscita dell’Italia dalla Nato). Il tutto era basato sul rifiuto del professionismo della politica (due mandati e taglio dei vitalizi). È chiaro che si trattava della piattaforma di un movimento collocato per sempre all’opposizione. Non a caso fra i giovani eletti in Parlamento nella legislatura 2013-2018 emerse come leader naturale Alessandro Di Battista, leader di un movimento allo stato nascente, una sorta di Che Guevara del grillismo. Tutto è filato liscio, si fa per dire, fino a quando il M5s si è collocato all’opposizione. I guai sono venuti con le elezioni del 2018, perché la legislatura sarebbe finita subito se il Movimento 5 stelle e la Lega non avessero dato vita a un governo. Ma la partecipazione al governo per il M5s è stata come una sorta di perdita traumatica della verginità. Il Movimento nel suo complesso non ha fatto i conti prima di far quella scelta con tutte le implicazioni che essa presentava. Poi, più in concreto, quando stai all’opposizione puoi sommare facilmente posizioni di destra, di sinistra e anche follie allo stato puro. Invece se vai al governo – siccome, checché ne dica Di Maio, la destra e la sinistra tuttora esistono e anzi se si erano affievolite nel passato adesso sia Salvini sia la Meloni stanno rilanciando una destra radicale estrema – allora tutti gli interlocutori devono fare scelte precise, specialmente i tuoi partner di governo. È così avvenuto che anche per i grillini la politica buttata via dalla porta è rientrata dalla finestra con la complicazione ulteriore che Grillo e Casaleggio jr. hanno scelto come capo politico del Movimento un personaggio funzionale alla volontà di andare al governo. Luigi Di Maio, un ragioniere precisino e dall’eloquio forbito, che comunque è andato benissimo nel ruolo di speaker. Ma un capo politico che guida un partito che sta al governo non può essere solo uno speaker, deve essere molto di più e deve esprimere comunque posizioni politiche assai precise. Ora, sul terreno delle posizioni politiche naturali, Di Maio esprimeva istintivamente la destra del movimento. Ma qui si è chiuso il cortocircuito. Salvini dal ministero degli Interni ha proclamato e trascinato il governo sulle posizioni della destra più radicale, e Di Maio ha sempre condiviso aggiungendo per parte sua e di Bonafede posizioni ultra giustizialiste. Una dialettica politica autentica nel governo giallo-verde non c’è mai stata, perché Salvini faceva proclami e definiva la linea politica e Di Maio l’accettava. Le conseguenze di questa asimmetria si sono viste alle elezioni europee dove i rapporti di forza si sono rovesciati. Il paradosso però è stato che a far la crisi di governo non è stato il M5s, ma è stato Salvini.
In seguito a una mossa del tutto geniale di Renzi assecondata da Bettini si è così arrivati a un rovesciamento delle alleanze politiche: i grillini sono passati dall’alleanza con la Lega di Salvini a quella con il Pd. Senonché questo rovesciamento di alleanze viene vissuto all’interno del Movimento 5 stelle con due posizioni di segno opposto: per Grillo, Fico e una parte dei gruppi parlamentari è l’occasione per affermare nella realtà un pezzo almeno di un utopismo di sinistra che è nel loro cuore; mentre invece per Di Maio e una parte dei grillini questo governo è uno stato di necessità per evitare elezioni anticipate che manderebbero a casa più della metà dei gruppi parlamentari. Però Di Maio e i suoi continuano a nutrire una repulsione profonda per il Pd e i suoi esponenti. Insomma è avvenuto che il Movimento 5 stelle non ha fatto i conti con sé stesso e con le scelte di valore, né nel momento in cui è andato al governo con Salvini né adesso che lo ha fatto alleandosi con il Pd e con LeU. È evidente che o il Movimento 5 stelle riesce a trarre dal suo retroterra originario, e dal suo stesso personale politico, un pensiero politico e programmatico coerente con la scelta fatta, ed è così in grado di spiegarla al suo popolo, oppure questa situazione è destinata a implodere e il M5s andrà in mille pezzi che nessuno sarà in grado di raccogliere neanche con il cucchiaino.
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