Il paradosso di questa tornata elettorale per il presidente degli Stati Uniti d’America è che l’economia a stelle e strisce arriva in ottima salute ma ciò potrebbe non essere sufficiente per la compagine democratica. Gli americani, infatti, votano il numero uno della Casa Bianca sempre con una mano sul portafogli. Se l’economia è andata bene nei quattro anni precedenti l’elezione, allora il partito al governo ha un vantaggio nelle urne tranne nei casi eccezionali come potrebbe essere proprio questa volta. La sfida Harris–Trump, al di là delle forti connotazioni polemiche da social, si gioca in modo particolare sull’economia. Sarà un voto dettato dalla percezione degli elettori che, nel silenzio delle urne, risponderanno a questa domanda: negli ultimi tempi ho guadagnato oppure ho perso?

Bidenomics

Joe Biden, presidente uscente, lascia gli Usa con una salute di ferro economicamente parlando. Il Prodotto interno lordo, negli ultimi quattro anni, è cresciuto del 12%: in media il 3% l’anno. Basti pensare che il suo predecessore, proprio Donald Trump, aveva registrato una espansione dell’economia pari all’1,8%. A onor del vero, però, bisogna ricordare che il tycoon si è trovato a reggere la nazione durante il primo biennio della pandemia di Covid che tanto male ha fatto all’economia. Ancora, durante la presidenza Biden il numero di occupati è cresciuto di ben 16 milioni di unità: un vero e proprio record mai registrato sotto una presidenza democratica. Con Trump gli occupati erano aumentati di 6,7 milioni. Il tasso di disoccupazione negli ultimi quattro anni è stato del 3,4%, uno dei più bassi della storia americana, e i salari sono cresciuti del 4,9%.

Tutto ciò è il frutto della cosiddetta “Bidenomics”, un neologismo per indicare l’economia di Biden: Biden Economics. Si tratta di un progetto a lungo termine varato dall’amministrazione Biden avendo alla base le teorie keynesiane: un robusto programma di investimenti volti a ottenere la piena occupazione. Cosa che poi effettivamente è accaduta. La Bidenomics consiste, nel concreto, in una serie di provvedimenti per stimolare gli investimenti dei privati senza intaccare le imposte. Insomma: investimenti infrastrutturali, sul capitale umano e in ricerca e sviluppo, che hanno consentito un esponenziale aumento della produttività del sistema economico e che hanno permesso anche di ridurre le forti disparità presenti nella società americana. Un piano di investimenti che, secondo molti analisti, si è concretizzato in circa 1.900 milioni di dollari messi sul piatto in quattro anni. Un investimento talmente forte che il “Green Deal” varato dall’Unione europea, con i suoi 600 miliardi di euro di cui solo 70 finanziati dalla Commissione, non può che impallidire.

Inflazione

Tutto bene, dunque? Non proprio. Perché anche la Bidenomics ha avuto degli effetti collaterali. Il primo tra tutti, l’accentuare l’inflazione negli Stati Uniti. Il processo inflattivo era già partito durante il Covid a causa delle chiusure delle fabbriche e del successivo aumento dei prezzi di produzione, senza contare i problemi nella distribuzione delle merci. A questo, negli Usa si è aggiunto anche il piano dell’amministrazione presidenziale tutto finanziato in deficit.

Gli effetti collaterali si sono concretizzati in una diminuzione del potere di acquisto degli americani che, negli ultimi quattro anni, ha segnato meno 1,3% con l’inflazione cresciuta del 20% nello stesso periodo di tempo. Ed è proprio l’aumento del costo della vita, nonostante le ottime performance economiche generali registrate, a poter determinare una sconfitta di Harris. L’incremento dei prezzi non colpisce la popolazione allo stesso modo. L’inflazione è una “imposta occulta” sulla povertà, che mette le mani nelle tasche proprio di quella classe media così determinante nelle elezioni presidenziali. Mentre a noi europei queste elezioni sembrano un referendum sulla democrazia, in realtà saranno un giudizio sulla gestione economica portata avanti da Biden. O sulla percezione che i cittadini hanno di essa.

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